La previdenza in pillole
La disoccupazione è il peggior nemico di ogni sistema pensionistico e in Italia ci sono tre fasce di protezione. Il gruppo dei «garantiti» è essenzialmente composto dai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e delle grandi imprese.
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La loro protezione è tradizionalmente stata molto elevata nel caso delle pensioni ed è più o meno in linea con gli standard europei nel caso dei rischi diversi dalla vecchiaia.
Il secondo gruppo è quello dei «semi-garantiti»: esso è composto da una variegata combinazione di lavoratori dipendenti (piccole imprese, settori tradizionali come l’edilizia o l’agricoltura), lavoratori autonomi (come piccoli commercianti o piccoli artigiani) e lavoratori «atipici». Per quanto riguarda il rischio «vecchiaia», la forma di protezione tipica di questo gruppo è stata e in larga parte è ancora la pensione «al minimo» (o di poco superiore al minimo), mentre per quanto riguarda i rischi diversi dalla vecchiaia le prestazioni e le tutele sono assai limitate negli importi e nella durata oppure assenti.
Il terzo gruppo è infine composto dai «non garantiti». Qui troviamo tipicamente quei lavoratori che restano relegati nell’economia sommersa (ancora molto diffusa, soprattutto nel Mezzogiorno), senza riuscire a conquistare un ancoramento stabile e duraturo con il mercato del lavoro regolare (Welfare all’italiana, Banca d’Italia 2012).
La speranza di vita è legata al reddito perché chi ha maggiori disponibilità vive di più, si gode per più anni la pensione con la conseguenza che i poveri finanziano la previdenza dei più abbienti.
L’aumento dell’età media di vita è dovuto anche al crollo della natalità che a sua volta dipende dal reddito.
Le ricorrenti crisi finanziarie dimostrano come sia molto pericoloso fare affidamento sulla finanza per sostenere le pensioni.
Solo una migliore distribuzione della produttività, dove prevalga il lavoro sul capitale e l’economia reale su quella finanziaria, potrà migliorare l’aspettativa pensionistica delle generazioni future.
Ne è oggi drammatica realtà la crisi della previdenza dei giornalisti che è crisi di lavoro, anche nero.
«Tre idee, alternative l’una all’altra, per tentare di risolvere il drammatico problema della previdenza dei giornalisti. Tre idee consegnate al governo per non fermarsi alla pur sacrosanta protesta e agli appelli autorevoli. Negli incontri e nei contatti delle ultime settimane, il comitato “Salviamo la previdenza dei giornalisti” ha sottoposto il documento che pubblichiamo oggi. E’ un sintetico dossier all’attenzione del governo, su cui sollecitiamo ora il parere e il contributo di tutte le espressioni della professione. Tre idee con una parola d’ordine: la crisi del giornalismo di oggi, dunque anche della previdenza, si risolve in un solo modo: risolvendo il problema del precariato e del lavoro nero».
La prima proposta, che io condivido, è il rientro nel pubblico con la garanzia dello Stato.
«Ritorno dell’Inpgi nella sfera pubblica.
Prima del Decreto legislativo 509 del 1994 e sin dal 1956, con il Decreto del Presidente della Repubblica 781, l’Inpgi è stato ente di diritto pubblico con personalità giuridica e gestione autonoma. Era stata la legge Rubinacci del 1951 a prevedere questo particolare status avendo preso atto della peculiarità dell’attività professionale dei giornalisti, che li vede esposti oltre che ai normali rischi inerenti il rapporto di lavoro anche all’alea delle vicende politiche. Venne riconosciuto all’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani “Giovanni Amendola” il carattere sostitutivo di tutte le forme di previdenza e assistenza obbligatorie nei confronti dei giornalisti professionisti.
In base a questa forma giuridica, le prestazioni previdenziali sarebbero garantite dallo Stato, mantenendo comunque la governance autonoma prevista dal legislatore alla metà del secolo scorso» (da punoeacapo.org).
Lo storytelling usuale che decanta il patrimonio e la sua redditività è solo uno specchietto per le allodole.
La realtà è la crisi profonda del lavoro professionale, la disoccupazione e la conseguente fibrillazione delle Casse di Previdenza.
Affidare i montanti contributivi obbligatori ai mercati finanziari significa solo arricchire il mondo finanziario ma non quello reale, non ci vuole molto a capirlo.
Bisogna uscire, con la contribuzione previdenziale obbligatoria, dalla logica perversa dell’invito alla calma e alla prudenza in questa fase di forte turbolenza dei mercati finanziari. Ricordiamoci che ogni perdita rimane virtuale fino a che non tocchiamo il denaro chiedendo riscatti, anticipazioni, trasferimenti, cambiando comparto. Finita l’emergenza sanitaria e rimarginate le inevitabili ferite economiche, i mercati ripartiranno e coloro che hanno mantenuto la calma ne coglieranno i frutti.
È già accaduto in passato.
Per rendersi conto del problema basta leggere a pag. 28 della relazione della Banca d’Italia 2020 per la quale «Nel primo quadrimestre del 2020 le condizioni dei mercati finanziari sono decisamente peggiorate, di pari passo con il diffondersi dell’epidemia di Covid-19, che ha determinato una rapida revisione al ribasso delle prospettive del quadro macroeconomico. Una prima fase di forti tensioni sui mercati ha avuto inizio alla fine di febbraio, in corrispondenza con il rapido diffondersi dell’emergenza sanitaria in Europa e con la progressiva adozione di provvedimenti di contenimento dell’epidemia. Le preferenze degli investitori si sono indirizzate verso attività rifugio, determinando un apprezzamento di valute ritenute più sicure, come lo yen e il franco svizzero. La volatilità dei rendimenti dei titoli di Stato è salita rapidamente e i premi per il rischio di credito sovrano sono aumentati in misura marcata in tutti i paesi dell’area. Le tensioni sui mercati si sono intensificate dalla seconda settimana di marzo, nonostante l’avvio delle prime misure di sostegno al sistema produttivo. Gli operatori di mercato hanno continuato a liquidare le loro posizioni in attività finanziarie a più alto rischio, generando una spirale negativa tra vendite e illiquidità che ha amplificato il calo delle quotazioni. Nella fase più critica le vendite si sono estese alle attività ritenute più sicure, in un contesto di impellente necessità di liquidità degli operatori e di elevata volatilità; ne è derivato un brusco aumento dei rendimenti dei titoli di Stato. I corsi azionari sono scesi in misura senza precedenti; nell’area dell’euro tra il 21 febbraio e il 18 marzo l’indice generale di borsa è diminuito del 36 per cento, quello bancario del 48. La volatilità implicita nelle opzioni sugli indici azionari ha raggiunto i massimi toccati durante la crisi finanziaria globale del 2008-09. I costi di finanziamento delle società sono saliti rapidamente, riflettendo un aumento marcato dei premi per il rischio di credito delle imprese».
Confondere la previdenza obbligatoria di primo pilastro con quella complementare, facoltativa, di secondo pilastro sarebbe da irresponsabili ma la cosa veramente assurda è che la prima è priva di regole cogenti mentre la seconda vanta regole europee di primo livello.
Le Casse Professionali privatizzate gestiscono la previdenza dei Liberi Professionisti al posto dell’INPS.
Lo Stato ha l’obbligo (e non solo la semplice facoltà) di stabilire dei meccanismi di previdenza obbligatoria in base all’art. 38 della Cost., ma vi può provvedere in vari modi:
La maggior parte dei lavoratori è iscritta all’ Assicurazione Generale Obbligatoria (c.d. AGO) a carico dell’INPS, cui fanno riferimento:
– tutti i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) nonché
– una parte dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, ecc.).
Esiste poi il regime pensionistico alternativo (ma sempre obbligatorio), costituito dalle c.d. Casse di previdenza dei liberi professionisti, che sono formalmente enti di diritto privato (a differenza dell’INPS), ma di rilevanza pubblica.
Queste Casse Professionali privatizzate obbligatorie non vanno confuse con la c.d. previdenza complementare, che ha invece natura privata e aggiuntiva, e che costituisce il c.d. secondo pilastro della previdenza ed è regolata dal Decr. Leg.vo del 2005 n. 252 (I principi generali delle Casse di Previdenza, di Michele Iacoviello, 14 febbraio 2021).
I professionisti si interroghino prima che sia troppo tardi.
Il problema è il lavoro e la sua retribuzione adeguata e quindi ogni sforzo dovrebbe essere indirizzato sul lavoro, dipendente ed autonomo!
Gli amministratori delle Casse di previdenza e assistenza sono responsabili per la valutazione della capacità delle Casse di continuare ad operare come entità in funzionamento in grado di assolvere alla loro mission che è quella di garantire previdenza e assistenza nel lungo periodo.
Tratto da Diritto e Giustizia
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