Le distorsioni della doppia contribuzione per lo svolgimento della stessa attività attraverso gli ordini “feudali”
«Secondo la narrazione corrente, le professioni ordinistiche sono tutti quei lavori regolamentati e intellettuali che nel nostro ordinamento fanno riferimento ad un Ordine professionale inteso come organismo, riconosciuto dalla legge, di autogoverno della professione con il fine di garantire la qualità delle attività svolte dai lavoratori nel rispetto di uno specifico codice deontologico e a vantaggio generale dei cittadini» (Massimiliano Franceschetti, Il contenuto del lavoro delle professioni ordinistiche in Italia).
In evidenza
La Banca d’Italia, nel febbraio del 2021, ha lanciato un Occasional Papers sul tema “Le professioni ordinistiche: misure ed effetti della regolamentazione” di Sauro Mocetti e Giacomo Roma. Gli autori si chiedono: «perché alcune professioni sono regolamentate? È possibile misurare l’intensità della regolamentazione? E quali sono gli effetti che essa produce sul mercato?»
«L’esistenza di professioni regolamentate non è un fenomeno recente, sebbene l’intensità e le caratteristiche del fenomeno si siano modificate nel corso dei secoli. Antesignani degli attuali ordini professionali possono essere trovati in Italia, per esempio, nei collegia dell’antica Roma4 e, andando più avanti nel tempo, nelle corporazioni medievali5, che conobbero il loro maggiore sviluppo tra il Duecento e il Trecento e andarono declinando fino a scomparire tra il Seicento e il Settecento. Considerando l’età contemporanea, il numero delle professioni ordinistiche è cresciuto significativamente nel secolo scorso (prima negli anni venti e, successivamente, nel secondo dopoguerra fino agli novanta). Anche l’analisi degli effetti economici della regolamentazione ha una lunga e illustre tradizione, che va indietro nel tempo fino ad Adam Smith6. Perché esistono dunque professioni (così strettamente) regolamentate? E quali sono gli effetti sulla concorrenza? La giustificazione teorica della regolamentazione è legata all’esistenza di fallimenti del mercato. In primo luogo, il mercato può fornire un equilibrio subottimale in presenza di asimmetrie informative: a causa della mancanza di conoscenze specialistiche e della natura immateriale dei servizi, i consumatori non sono in grado di valutare la qualità del prodotto o del servizio che ricevono. La regolamentazione, stabilendo standard minimi di competenze per esercitare la professione e imponendo regole di condotta, permette un guadagno di benessere garantendo che i consumatori ricevano un servizio più omogeneo e di più elevata qualità (Akerlof, 1970; Leland, 1979; Law e Kim, 2005)7. Un secondo caso di fallimento del mercato è connesso all’esistenza di potenziali esternalità negative che la scarsa qualità della fornitura di un servizio può generare per la società nel suo insieme. L’esempio classico è quello di un medico che fa una diagnosi sbagliata e che può, pertanto, causare la diffusione di una malattia epidemica. Tuttavia, la regolamentazione può anche generare risultati indesiderabili dal punto di vista della concorrenza, dell’efficienza economica e del benessere collettivo.
4 Il diritto romano prevedeva l’esistenza del collegium, che era un’associazione retta da un proprio statuto (la lex collegii) che ne stabiliva finalità e organi, oltre ai criteri di ammissione degli associati. Tra le associazioni più rilevanti vi erano i collegia funeraticia, anche a causa della grande importanza che la cultura romana attribuiva alla celebrazione dei riti funebri, e quelle di artigiani, medici, insegnanti, ecc. (collegia opificum).
5 Nell’Europa medievale si chiamavano corporazioni – arti o mestieri in Italia e gilde nei paesi di lingua germanica – le associazioni di tutti coloro che esercitavano lo stesso mestiere (mercanti, banchieri, fabbri, calzolai, ecc.). Nate anche per scopi mutualistici, le corporazioni diventarono associazioni strutturate che stabilivano riserve di attività (per esempio, nessuno, senza essere iscritto a una corporazione che lo rappresentava, poteva esercitare certe attività) e disciplinavano tutto ciò che riguardava l’esercizio della professione (per esempio, stabilivano prezzi, salari, condizioni di lavoro dei sottoposti, criteri di accesso alla corporazione e provvedevano anche alla formazione professionale di coloro che intendevano diventarne membri, gli apprendisti).
6 Smith metteva in discussione il ruolo delle corporazioni sostenendo che queste istituzioni servissero soprattutto per limitare la concorrenza e garantire salari più elevati ai loro membri e criticando, soprattutto, la lunghezza dei periodi di apprendistato e le limitazioni al numero di apprendisti.
7 Alcuni sostengono, inoltre, che la regolamentazione incentivi i lavoratori a investire in capitale umano specifico per la professione, proteggendo i rendimenti dell’investimento dalla concorrenza (Akerlof, 1970; Shapiro, 1986)» (Banca d’Italia Eurosistema, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, Le professioni ordinistiche: misure ed effetti della regolamentazione di Sauro Mocetti e Giacomo Roma, n. 600, febbraio 2021).
Fatta questa premessa, va detto che ci sono tre categorie di professionisti i quali, per lo svolgimento della medesima attività, sono costretti a versare una doppia contribuzione previdenziale, una all’INPS e una all’Ente di categoria. Sono i medici dipendenti dal SSN, i farmacisti dipendenti e gli agenti di commercio.
I medici dipendenti del SSN
In sintesi: i medici dipendenti del SSN versano i contributi in INPS ma, in quanto iscritti all’Ordine dei medici, sono obbligati ad iscriversi anche in ENPAM e a versare contributi previdenziali in quota A. Dal Bilancio consuntivo 2022 i contributi versati in quota A sono pari a 463.846.587 milioni di euro, mentre le entrate contributive della quota B (per i medici liberi professionisti) sono pari a 1.031.323.246 milioni di euro. Agli interessati consiglio la lettura della guida dell’ENPAM “Dalla laurea alla pensione – la guida completa per i medici dipendenti”. Non mi risulta che a tutt’oggi pendano proposte di legge per l’abolizione della doppia contribuzione dei medici dipendenti, come invece è avvenuto per i farmacisti come si dirà più avanti. «I contributi di Quota A si possono pagare in unica soluzione oppure in quattro o otto rate senza interessi. Il pagamento a rate è possibile solo attivando la domiciliazione bancaria con Enpam. Puoi anche pagare a rate attivando gratuitamente la carta di credito che Enpam mette a disposizione in convenzione con la Banca popolare di Sondrio. In questo caso, però, dovrai disattivare l’addebito diretto con l’Enpam nel caso tu l’abbia già attivato.
Gli importi aggiornati al 2023 sono:
€ 128,87 all’anno per gli studenti;
€ 257,73 all’anno fino a 30 anni di età;
€ 500,26 all’anno dal compimento dei 30 fino ai 35 anni;
€ 938,75 all’anno dal compimento dei 35 fino ai 40 anni;
€ 1.733,72 all’anno dal compimento dei 40 anni fino all’età del pensionamento di Quota A;
€ 938,75 all’anno per gli iscritti oltre i 40 anni ammessi a contribuzione ridotta (a questa categoria appartengono solo gli iscritti che hanno presentato la scelta prima del 31 dicembre 1989. Dal 1990 non esiste più la possibilità di chiedere la contribuzione ridotta).
A queste somme va aggiunto anche il contributo di maternità, adozione e aborto di 69,70 euro all’anno. I contributi sono dovuti dal mese successivo all’iscrizione all’Albo fino al mese di compimento dell’età per la pensione».
Il rapporto fra i contributi versati in riferimento alle prestazioni si è attestato, nel 2022, sul valore di 1,01 per la quota A. (463,85 contributi v 458,91 pensioni) (www.enpam.it).
«Gestione Quota A
Nel consuntivo 2022 i ricavi contributivi complessivi della gestione (€ 463.846.587) risultano sostanzialmente in linea con il medesimo dato del 2021. I contributi ordinari aumentano dello 0,54% e i ricavi contributivi a titolo di ricongiunzione passano da € 13.711.954 del 2021 ad € 14.978.202 (+9,23%). La quota capitale dei contributi di riscatto di allineamento (istituto soppresso dal 2013) invece presenta un decremento del 28,12%.
Per quanto concerne gli oneri per prestazioni, la spesa totale, al netto della maternità, pari ad € 474.596.706, è superiore del 12,49% rispetto a quella registrata in consuntivo 2021. In particolare si evidenzia un aumento delle uscite per pensioni (al netto dei recuperi) del 12,97% ed in particolare della spesa per pensioni ordinarie, che passa da € 306.789.592 del 2021 a € 354.396.217 del 2022 (+15,52%) connesso all’aumento del numero di iscritti che accedono al pensionamento.
L’importante incremento della spese per pensioni determina, per la prima volta, un disavanzo della gestione di € 10.750.119». (dal Bilancio consuntivo d’esercizio 2022 di Enpam, pag. 21).
I farmacisti dipendenti
Anche loro versano la contribuzione previdenziale all’INPS e, in quanto iscritti all’Ordine dei farmacisti, anche in ENPAF. I contributi versati all’ENPAF dai farmacisti dipendenti, essendo coincidenti dal punto di vista temporale con quelli versati in INPS, non sono cumulabili o totalizzabili e, quindi, se il farmacista dipendente non raggiunge i requisiti di anzianità contributiva richiesta da ENPAF, quei contributi restano silenti. I farmacisti dipendenti sono 32.917, pari al 30% del totale. È stata presentata una proposta di legge per abolire l’obbligatorietà dell’iscrizione (n. 595, Gribaudo, Sarracino presentata il 17.11.2022): «In Italia, due terzi dei circa 100.000 iscritti agli albi dei farmacisti sono lavoratori dipendenti e di questi la maggioranza sono donne. Si tratta di una categoria professionale con un reddito medio-basso, soprattutto per quello che riguarda il farmacista dipendente di una farmacia privata, una categoria molto colpita dai fenomeni della disoccupazione e del precariato, nonché dall’abbandono della professione in seguito alla cancellazione dall’albo. Per fare un esempio, solo nel 2018 si sono cancellati dall’albo ben 2.467 farmacisti di età inferiore ai 60 anni. Sono interamente a carico del farmacista dipendente, oltre al costo della tassa annuale di iscrizione all’ordine professionale, anche la quota previdenziale dovuta all’ENPAF, costi che contribuiscono a ridurre la retribuzione del farmacista dipendente, già di per sé non elevata, e a renderla spesso equivalente o inferiore a quella percepita dal personale non laureato delle farmacie stesse. La quota dovuta all’ENPAF da parte del farmacista dipendente può variare, in base alla data della prima iscrizione all’albo e ai requisiti di lavoro dipendente e disoccupazione, dettati da un farraginoso regolamento di previdenza dell’Ente, da un minimo di 69 euro a un massimo di 4.565 euro all’anno, indipendentemente dal reddito percepito. Si ricorda che l’ENPAF prevede che i contributi vengano pagati anche in caso di disoccupazione e che il regolamento dell’Ente stabilisce che dopo cinque anni di disoccupazione, anche in questo delicato momento di crisi economica, la quota venga aumentata a circa 2.300 euro. L’ENPAF è l’unica cassa previdenziale tra quelle privatizzate ai sensi del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e tra quelle istituite ai sensi del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103 (necessarie a garantire una copertura previdenziale e assistenziale ai liberi professionisti, non ai lavoratori dipendenti), a non applicare aliquote contributive sul reddito degli iscritti, ma a prevedere un sistema a quota fissa e a prestazione definita. La quota intera fissa di 4.541 euro (quota dell’anno 2020) avvantaggia i liberi professionisti con alti redditi e svantaggia i liberi professionisti con un basso reddito. Sono assenti anche minimi contributivi per i liberi professionisti. Inoltre, il regolamento dell’Ente prevede che la scadenza dell’invio della documentazione (per la domanda di riduzione) sia perentoria: il ritardo comporta l’attribuzione della quota intera di 4.541 euro (quota dell’anno 2020) anche se si tratta di farmacisti disoccupati o stagisti, quindi senza reddito o con redditi esigui. Anche se i farmacisti dipendenti e disoccupati iscritti all’ENPAF possono chiedere di pagare delle quote ridotte, queste riduzioni non vengono riconosciute loro d’ufficio. Infatti, l’articolo 21 del citato regolamento di previdenza prevede che al fine di ottenere la riduzione del contributo previdenziale obbligatorio non è sufficiente che l’iscritto si trovi nella condizione prevista dal regolamento al momento in cui presenta la domanda, ma è necessario che dimostri il possesso della condizione medesima, almeno per un periodo pari a sei mesi e un giorno nell’anno, oppure, in caso di prima iscrizione, per un numero di giorni pari alla metà più uno del periodo di iscrizione. In mancanza di questi requisiti viene applicata la quota del 50 per cento, pari a circa 2.271 euro annui (quota dell’anno 2020), ovviamente insostenibile in assenza di reddito. Inoltre, lo stesso articolo 21 prevede che la riduzione del contributo previdenziale in qualità di disoccupato temporaneo e involontario non possa essere conservata dall’iscritto per un periodo complessivamente superiore a cinque anni, da computare nell’arco dell’intero rapporto previdenziale con l’ENPAF. Il superamento di tale limite temporale comporta la perdita della riduzione massima di cui si usufruiva. Questa norma, denominata «perdita bonus disoccupati», rappresenta, inoltre, un ostacolo per l’accesso ai concorsi da parte dei farmacisti disoccupati che hanno superato i cinque anni di disoccupazione con concomitante iscrizione all’albo, in quanto rende difficile l’iscrizione all’albo e quindi all’ENPAF. I requisiti chiesti dall’Ente per erogare la pensione a 68 anni e 9 mesi di età, cioè trenta anni di versamenti e venti anni di esercizio della professione, sono molto difficili da raggiungere da parte delle nuove generazioni di laureati in farmacia, soprattutto dei farmacisti dipendenti, considerato che le carriere lavorative sono sempre più discontinue ed eterogenee. Una modifica regolamentare dell’ENPAF ha abolito l’istituto della restituzione a partire dall’anno 2004 e ha comportato che coloro i quali non raggiungano i requisiti per il trattamento pensionistico con l’ENPAF hanno la possibilità di richiedere, dopo la cancellazione dall’albo, la restituzione dei contributi previdenziali versati fino all’anno 2003. Non è possibile la restituzione di quelli versati dall’anno 2003 in poi. I contributi versati all’ENPAF dai farmacisti che svolgono una carriera lavorativa interamente da dipendenti, essendo versati in periodi coincidenti con quelli dei contributi versati all’INPS, sono contributi «non cumulabili e non totalizzabili», quindi non recuperabili in nessun modo se non si raggiungono i requisiti di anzianità contributiva richiesti dall’Ente. Si tratta, pertanto, di risorse economiche sottratte a una categoria professionale già fragile. Il doppio obbligo contributivo per i professionisti, che svolgono da dipendenti un unico lavoro, riguarda oggi ormai soltanto i medici e i farmacisti. Infatti, alcune casse di previdenza private, come quelle degli ingegneri, dei veterinari e dei commercialisti, hanno già abolito, nei decenni scorsi, l’obbligo contributivo dei professionisti già provvisti di un’altra previdenza obbligatoria. L’insieme delle criticità esposte, in un contesto lavorativo oggi aggravato dalla crisi del lavoro generata della pandemia di COVID-19, rende inderogabile sollevare i farmacisti dipendenti da questo obbligo contributivo, che erode le loro esigue retribuzioni, senza garantire, in molti casi, nessun vantaggio previdenziale. L’articolo 1 della presente proposta di legge mira a mettere fine all’ingiustizia della doppia imposizione contributiva a carico dei farmacisti dipendenti e dell’imposizione sui farmacisti disoccupati. Il comma 1 prescrive l’obbligo dell’iscrizione all’ENPAF solo per i farmacisti che esercitano la libera professione e il comma 2 prevede la possibilità di annullare l’iscrizione all’ENPAF per coloro che si trovano in determinate condizioni. L’articolo 2 obbliga l’ENPAF ad adottare il criterio della proporzionalità dei contributi previdenziali ed esclude alcune categorie dal versamento del contributo di solidarietà. L’articolo 3 introduce delle deroghe all’istituto del cumulo contributivo per consentirne un utilizzo più semplice da parte degli ex iscritti all’ENPAF. L’articolo 4 consente il cumulo di periodi contributivi coincidenti, ai fini del solo montante contributivo. L’articolo 5 individua i costi derivanti dall’attuazione della legge e ne prevede la copertura».
Gli agenti di commercio
Com’è noto, gli agenti e rappresentanti di commercio, operanti sul territorio nazionale, sono soggetti ad una doppia contribuzione e in particolare:
– alla contribuzione INPS – IVS Commercianti, dovuta sul reddito d’impresa prodotto nell’anno e
– alla contribuzione Enasarco, dovuta su tutte le somme spettanti in dipendenza del contratto di agenzia.
I contributi Enasarco, da corrispondere trimestralmente, devono essere calcolati sulle provvigioni dovute all’agente ancorché non pagate, ossia sulle provvigioni maturate.
Vale la pena leggere l’intervento del Governo dell’8 marzo 2023, XIX Legislatura, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, Lavoro pubblico e privato (XI) e la Relazione sui contributi silenti della Commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali della scorsa Legislatura, Allegato 1, “Enasarco: criticità gestionali, processo di nomina e regolare funzionamento del Consiglio di Amministrazione e vicende giudiziarie”.
«ALLEGATO 1
5-00494 Tenerini: Misure volte a consentire agli iscritti all’Enasarco il recupero dei contributi silenti giacenti presso il medesimo ente previdenziale.
TESTO DELLA RISPOSTA
Con il presente atto di sindacato ispettivo l’Onorevole interrogante richiama l’attenzione del Governo in ordine a eventuali provvedimenti da adottare affinché gli iscritti all’Enasarco possano recuperare dall’Ente in questione i cosiddetti contributi silenti.
Ciò detto, sentita la competente direzione ministeriale, si rappresenta quanto segue.
La Fondazione Enasarco è un ente privato di previdenza obbligatoria di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, che eroga prestazioni di natura integrativa rispetto a quelle liquidate dall’INPS – Gestione commercianti. Gli agenti e rappresentanti di commercio devono pertanto essere contemporaneamente iscritti sia all’INPS che all’Enasarco.
Il numero degli iscritti attivi, indicati nell’ultimo bilancio tecnico al 31 dicembre 2020, è pari a 204.346 unità, a cui si aggiungono gli agenti di commercio non ancora pensionati che non hanno contribuito nell’ultimo anno, ma che, per effetto della discontinuità lavorativa tipica della professione di agente di commercio, hanno una posizione previdenziale in sospeso presso l’Ente, i cosiddetti «silenti» pari a circa 685.000 unità.
Relativamente ai requisiti di accesso per l’erogazione delle prestazioni, il vigente Regolamento delle attività istituzionali prevede per la pensione di vecchiaia almeno 67 anni di età e 20 anni di anzianità contributiva (purché la somma di età e anzianità contributiva sia pari almeno a 92), mentre per la pensione di vecchiaia anticipata almeno 65 anni di età e 20 anni di anzianità contributiva (quando la somma di età anagrafica e di anzianità contributiva risulti pari almeno a 90 con la riduzione dell’importo della pensione del 5 per cento per ciascuno degli anni di anticipazione rispetto all’età anagrafica di 67 anni).
Ciò posto, la problematica dei «contributi silenti» riguarda gli iscritti che, in mancanza del requisito contributivo minimo di 20 anni maturato presso l’Enasarco, vedono negarsi la corresponsione di qualsiasi trattamento pensionistico e non possono valorizzare in qualche modo i propri versamenti contributivi, tramite gli istituti all’uopo previsti dalla normativa primaria (totalizzazione e cumulo), in quanto l’Enasarco adduce a ostacolo la coincidenza dei contributi riscossi con quelli contemporaneamente versati dagli agenti presso la Gestione commercianti dell’INPS, alla quale sono obbligatoriamente iscritti, senza che se ne possa ottenere la restituzione poiché non prevista nell’ordinamento.
Tale irripetibilità dei contributi versati è peraltro avallata anche da varie pronunce della Corte costituzionale che sottolineano la natura solidaristica di tutti i sistemi previdenziali, compresi quelli dei liberi professionisti.
Per contro, i predetti istituti della totalizzazione e del cumulo giuridico – orientati alla massima valorizzazione ai fini pensionistici della contribuzione ovunque versata – consentono all’INPS – Gestione commercianti di tener conto, ai fini del requisito minimo ventennale, delle diverse contribuzioni maturate eventualmente dall’agente o rappresentante presso altre gestioni sia pubbliche che private, purché non temporalmente coincidenti.
Va, peraltro, rilevato che, benché l’articolo 16 del Regolamento attività istituzionali di Enasarco preveda, con decorrenza dal 2024, una prestazione in rendita contributiva – che può essere richiesta da coloro che si sono iscritti all’ente a far data Pag. 181dal 1° gennaio 2013 e che abbiano 67 anni di età e almeno 5 anni di anzianità contributiva – tale prestazione è comunque esclusa per l’amplissima platea di coloro che risultino già iscritti alla Fondazione in data antecedente al 1° gennaio 2013. Tale prestazione, reversibile ai superstiti, viene calcolata con il metodo contributivo, ed è ridotta in misura del 2 per cento per ciascuno degli anni mancanti al raggiungimento della quota necessaria per il diritto alla pensione (quota 92).
Inoltre, ai sensi dell’articolo 9 del Regolamento attività istituzionali, per gli iscritti che cessano temporaneamente o definitivamente l’attività e che non sono titolari di pensione di invalidità, inabilità o rendita contributiva, è ammessa la possibilità di versare la contribuzione volontaria purché abbiano un’anzianità contributiva minima di 5 anni, di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la cessazione dell’attività stessa. La richiesta di ammissione alla prosecuzione volontaria deve essere presentata, a pena di decadenza, entro il termine di due anni decorrenti dal 1° gennaio successivo alla cessazione dell’attività.
Tale situazione fa sì che le somme, versate obbligatoriamente all’Enasarco in favore dei silenti e trattenute dall’Ente, non pervenendo al riconoscimento di una prestazione pensionistica, risultino carenti dello scopo previdenziale e possano rappresentare al contempo un indebito arricchimento da parte dell’Enasarco.
Tutto ciò considerato, in coerenza con il più recente quadro normativo orientato alla massima valorizzazione, ai fini pensionistici, della contribuzione ovunque versata, si potrà valutare la possibilità di un intervento normativo atto a consentire agli agenti e rappresentanti di commercio che, a causa della discontinuità tipica della professione, non hanno maturato presso l’Enasarco i 20 anni di contribuzione richiesti dal sistema generale, e quindi a coloro che hanno periodi assicurativi non valorizzabili tramite gli istituti legislativi esistenti, di utilizzare ai fini pensionistici la contribuzione versata, ad integrazione della pensione base erogata dall’INPS.
Tale possibilità andrà comunque valutata, tenendo conto della sostenibilità della gestione, stante i profili di onerosità per la Fondazione Enasarco. Infatti possono emergere impatti finanziari rilevanti sull’equilibrio di lungo periodo della Fondazione che, come evidenziato anche nel bilancio tecnico al 31 dicembre 2020, presenta elementi di criticità in ordine alla sostenibilità nel medio e lungo periodo».
«La gestione dei c.d. “silenti”
L’analisi della complessiva operatività della Fondazione evidenzia poi la necessità di trovare soluzioni – oggetto di continue denunce e esposti da parte degli iscritti alla stessa Fondazione e alla Commissione – alla gestione dei c.d. “silenti”, ossia degli iscritti che non avendo maturato i requisiti di anzianità contributiva richiesti per l’accesso alle pensioni di vecchiaia (almeno 20 anni di anzianità contributiva) restano – in caso di assenza dei requisiti di anzianità contributiva previsti anche dall’INPS – sprovvisti di alcuna pensione di vecchiaia. In sintesi, i contributi versati ad Enasarco non possono essere ricongiunti con i contributi Inps. Ciò si rende ancor più necessario in ragione della sentenza della Corte di Cassazione n. 8887 del 4 maggio 2016 (che richiama anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 20425 del 2010 che ha riconosciuto la facoltà di trasferire i contributi per la pensione di ex dipendente nelle gestioni speciali autonome, in ottemperanza alla L. n. 29 del 1979), che, tra l’altro, ha disposto: Il trattamento pensionistico degli agenti di commercio, gravante sul fondo di previdenza gestito dal Fondo ENASARCO, introdotto originariamente dal D.M. 10 settembre 1962 con caratteri di esclusività ed autonomia, pur essendo, successivamente (in forza della L. 22 luglio 1966, n. 613, art. 29 del D.P.R. 30 aprile 1968, n. 758, e della L. 2 febbraio 1973, n. 12), divenuto integrativo nei confronti della pensione Inps, non ha perciò acquistato natura di previdenza e assistenza sociale, trattandosi, nei due casi (Inps e Fondazione ENASARCO), di eventi diversi coperti da separate forme di assicurazione, e consistendo la peculiarità del suddetto trattamento integrativo nell’essere lo stesso erogato sulla base di conti individuali, alimentati esclusivamente dal versamento, da parte dei preponenti, di talune percentuali sulle provvigioni da essi liquidate agli agenti nonche’ da un pari contributo a carico di questi ultimi (cfr. in questo senso Cass. n. 1327/2013, n. 8467/2007, n. 8201/1995). La Fondazione, quindi, non si sostituisce al regime generale ma si limita a gestire una forma integrativa di tutela, con conseguente persistente obbligatorietà di iscrizione presso l’Inps. Ne consegue la coincidenza dei periodi assicurativi presso I’Inps, e presso la Fondazione ENASARCO, con l’inapplicabilità del regime di cumulo dettato dal D.Lgs. n. 42 del 2006».
Se ci sono tanti silenti significa che la permanenza degli agenti nella attività è precaria e discontinua il che stride con il regolamento che per la erogazione delle prestazioni richiede una anzianità minima di venti anni.
La cosa singolare però è che la doppia contribuzione per i veterinari è stata abolita dall’art. 24 della legge 12.04.1991, n. 136: «Iscrizione all’Ente. 1. Sono iscritti obbligatoriamente all’Ente tutti gli iscritti agli albi professionali che esercitano la libera professione o svolgono attività professionale come lavoratori autonomi convenzionati con associazioni, enti o soggetti pubblici o privati. 2. Sono iscritti facoltativamente all’Ente, oltre agli assicurati che si trovano nelle condizioni di cui al comma 2 dell’articolo 2, gli iscritti agli albi professionali che esercitano esclusivamente attività di lavoro dipendente o attività di lavoro autonomo, per le quali siano iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria. 3. L’iscrizione ed il passaggio dalla forma obbligatoria a quella facoltativa avviene su richiesta o d’ufficio. La facoltà di rinuncia all’iscrizione deve essere esercitata dall’interessato con espressa dichiarazione da redigere seguendo le modalità dell’articolo 24, primo comma, della legge 13 aprile 1977, n. 114. 4. E’ inefficace a tutti gli effetti l’iscrizione all’Ente di coloro che non siano iscritti agli albi professionali dei veterinari, o la cui iscrizione a tali albi sia nulla o sia stata annullata. In tal caso i contributi versati devono essere restituiti dall’Ente senza interessi. 5. Non comportano la perdita dell’anzianità di iscrizione i periodi di inattività professionale, purche’ sia mantenuta l’iscrizione all’Albo, dovuti a: a) inabilita’, debitamente provata, per malattia o altre cause; b) permanenza all’estero per motivi di studio; c) esercizio delle funzioni di membro del Parlamento nazionale od europeo, di consigliere regionale, di presidente della provincia o di sindaco di comune capoluogo di provincia o con più di 50.000 abitanti. 6. Durante i periodi di cui al comma 5 sono comunque dovuti i contributi previsti dagli articoli 11 e 12».
Sulla questione si è pronunciata anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 248/1997 su una fattispecie ante 1991, escludendo che la doppia previdenza concreti violazione dell’art. 38 della Costituzione in ragione del carattere programmatico del principio che ne impone il superamento.
La conseguenza che mi pare di poter trarre, a conclusione di questo approfondimento, è che la doppia contribuzione previdenziale, in ragione dello svolgimento della medesima attività professionale, è contraria all’art. 38 della nostra Carta Costituzionale.
La “doppia previdenza”, non comportando un’accentuazione del grado di copertura dell’assicurato ma in molti casi solo la creazione di contributi silenti, contrasta con la tendenza legislativa diretta a superare tale fenomeno.
Non credo che sia con i contributi silenti che può sostenersi la previdenza dei professionisti (Enasarco) e che i vantaggi collaterali alla iscrizione alle Casse di categoria, vedi Enpam che pure ci sino, ne possano giustificano il perdurare anche considerando che il rapporto di 1,01 tra contributi e pensioni per la quota A di Enpam è più che un campanello d’allarme sulla sostenibilità.
Perché ai veterinari l’obbligatorietà della doppia contribuzione è stata tolta mentre ai medici dipendenti, farmacisti dipendenti e agenti di commercio no?
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