Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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Lo spreco di denaro pubblico è un insulto ai cittadini onesti.

Le democrazie occidentali, gli ordinamenti liberali sono caratterizzati dalla divisione dei poteri, nel senso che il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario sono distinti ed esercitati da corpi diversi, ma con sistemi di controllo e di bilanciamento capaci di impedire che ognuno di questi prevalga sugli altri.

Lo spreco di denaro pubblico è un insulto ai cittadini onesti.

Tuttavia, l’esperienza insegna che i detentori del potere non tollerano facilmente i controlli, politici e giudiziari, anche se il garbo e la cultura di alcune personalità nel tempo ha minimizzato questa riluttanza. Nei confronti del Parlamento innanzitutto che i partiti hanno cercato, spesso riuscendoci, di condizionare con sistemi elettorali che hanno trasformato le Camere in assemblee di “nominati”, solo formalmente eletti, mentre degli ordinamenti giudiziari, i quali godono di una speciale, garantita indipendenza, si è cercato spesso di limitare l’efficienza attraverso la limitazione delle materie d’intervento e norme processuali defatiganti, quando non con la sottoposizione di alcuni ruoli al potere governativo, attraverso la limitazione delle scelte, ad esempio, nell’esercizio dell’azione penale.

Tuttavia, un sicuro democratico, come il Conte di Cavour, nell’impegno di disporre di una amministrazione efficiente era convinto della “assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, e un altro straordinario statista, Quintino Sella, Ministro delle finanze, leader della Destra Storica, si rivolgeva ai magistrati della Corte dei conti chiamandoli “tutori” della ricchezza dello Stato ed invitandoli a “vegliare che il Potere esecutivo non mai violi la legge”. Anni dopo, abbattuto lo stato liberale, il Cavaliere Benito Mussolini, impegnato nel delineare le istituzioni dello stato totalitario, non dubitò mai di dover rispettare il ruolo della Magistratura contabile le cui pronunce, quando non gradiva, superava ricorrendo alla registrazione “con riserva”, un istituto previsto dalla legge.

Si deve dunque arrivare ai tempi nostri, con un governo asseritamente “di destra” per dimenticare non solo l’insegnamento di Camillo di Cavour e di Quintino Sella ma anche quello di Benito Mussolini. Infatti, Alla Camera è stata presentata una proposta di legge, la n. 1621, ad iniziativa del Presidente del Gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti, quindi del partito di maggioranza relativa, che modifica profondamente il sistema dei controlli amministrativi e contabili e, soprattutto, quello della responsabilità “per danno erariale”, che si basa sulla comminazione di una “pena in denaro” attribuita dalla Corte dei conti a coloro i quali arrecano un pregiudizio alla finanza e ai patrimoni pubblici. Va premesso che la materia, così come in atto definita, non è un’invenzione italiana perché le attribuzioni della nostra Corte dei conti sono le medesime delle analoghe istituzioni superiori di controllo, secondo le indicazioni dell’International Organization of Supreme Audit Institutions (INTOSAI), che aderisce all’O.N.U. E, quanto al recupero delle somme illegittimamente spese, le regole sono anche nei regolamenti dell’Unione Europea. 

L’iniziativa riformatrice dell’on. Foti procede dall’intento, che si legge in apertura della relazione di accompagnamento, di evitare gli effetti del cosiddetto “timore della firma” che rallenterebbe l’azione dei funzionari preoccupati di incorrere in una condanna per danno all’erario, fingendo di non considerare che la responsabilità presuppone una condotta caratterizzata quanto meno da “colpa grave”, cioè con una macroscopica negligenza, imperizia e trascuratezza di elementari regole legali e contabili. Per esempio nell’esperienza più recente e nella polemica politica l’acquisto delle mascherine farlocche o dei banchi a rotelle mai utilizzati o lavori effettuati non a regola d’arte con conseguenti esigenze di interventi di manutenzione straordinaria.

Per evitare il timore di assumere responsabilità si prevede che in caso di condanna questa vada da un minimo di 150 euro, meno del costo delle marche da bollo applicate sugli atti giudiziari, ad un massimo di due annualità di stipendio, qualunque sia l’ammontare del danno, anche se milionario. A giustificazione di questa scelta si dice, e lo ha ripetuto ieri “Libero”, che “non serve emettere sentenze di condanna per milioni se poi non si riesce ad incassarne nemmeno uno”. Si tratta di un evidente equivoco, non solo perché le condanne milionarie sono rarissime ma perché tutti sanno che, anche nella responsabilità civile di natura risarcitoria, chi ottiene una sentenza di condanna non è sicuro di recuperare l’intera somma liquidata dal giudice perché il debitore potrebbe non averne la disponibilità. Quindi il tema è mal posto, soprattutto se si considera che il meccanismo che si vorrebbe introdurre prevede una assicurazione, molto opportuna, e si afferma che “si garantisce in tal modo il risarcimento completo dei danni subiti dalla pubblica amministrazione”. Cosa evidentemente non vera essendo previsto un tetto (due annualità di stipendio) al risarcimento. Quindi “il pieno risarcimento del danno patrimoniale causato per colpa grave”, di cui scrive Libero, non è il danno effettivo ma quello identificato dal giudice nella misura massima di due annualità di stipendio. 

In questo contesto avevo molto apprezzato una frase della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, letta sul Corriere del Mezzogiorno, di replica al Presidente della Regione Campania, De Luca nella quale segnala che “è danno erariale chi paga la pubblicità per dirsi che è bravo”. Immaginavo fosse espressione della consapevolezza di una realtà, la tutela della finanza pubblica. Alla Cavour, per intenderci.

Sbagliavo era una battuta. La realtà è nell’intervista del Presidente della Corte dei conti, Guido Carlino, a Ilaria Sacchettoni per il Corriere della Sera di domenica già nel titolo: “La lotta agli sprechi? Diventa più difficile con meno controlli e tetto alle sanzioni”. Con l’aggiunta, nell’occhiello, del “rischio di una maggiore pressione fiscale”. Non sembri strano, ma un sistema privato dei controlli, già notevolmente ridotti che si vorrebbe la Corte esercitasse in un tempo molto più limitato dell’attuale, e comunque lontanissimo dal tempo che invece l’amministrazione si è presa per preparare l’atto che poi invia alla Corte dei conti, e soprattutto la mancanza di una presenza sul territorio di una magistratura capace di perseguire i comportamenti gravemente lesivi degli interessi erariali negli enti locali, finisce per essere fonte di una maggiore e più accentuata dispersione di denaro pubblico. Ciò che, può sembrare un paradosso ma non lo è, potrebbe determinare una maggiore pressione fiscale per mancanza di risorse illecitamente spese. I casi delle mascherine farlocche e dei banchi a rotelle, denunciati continuamente anche da questa maggioranza quando era all’opposizione, oggi sono coperti da uno “scudo erariale”, che tutela gli incapaci ed i disonesti.

Una battuta viene spontanea quando nella costituzione di Atene Aristotele racconta della funzione dei logisti, i magistrati incaricati del controllo sulle spese dei funzionari che al termine del loro mandato dovevano di dar conto di come avevano utilizzato il denaro pubblico e, in caso di ammanchi, erano condannati a “dieci volte di più”! Da Aristotile, passando per Cavour, si passa dalla tutela al disprezzo per il denaro pubblico. Un insulto al cittadino che quelle risorse mette a disposizione dei bilanci pubblici attraverso la corresponsione di imposte, tasse e contributi.

di Salvatore Sfrecola

 

 

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