Anno: XXV - Numero 180    
Giovedì 3 Ottobre 2024 ore 13:00
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L’uso “politico” della storia per dividere e seminare odio.

È un dato che non può essere smentito.

L’uso “politico” della storia per dividere e seminare odio.

C’è un dato che inequivocabilmente smentisce i “neoborbonici” che sui social, nel rivendicare la prosperità del Regno delle Due Sicilie, definita la terza potenza economica del mondo, addossano all’unità d’Italia le sfortune del Sud e, in particolare ai Savoia e ai piemontesi: nel referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946 il Sud votò compatto per il mantenimento della Monarchia, nonostante venti anni di Fascismo ed una guerra tragicamente perduta.

È un dato che non può essere smentito. Nelle condizioni date, l’Italia delle città distrutte dai bombardamenti, divisa da una guerra civile della quale non esistevano precedenti, nel contesto di una diffusa crisi economica e sociale che gran parte dei partiti attribuivano al Re per non aver fermato per tempo il Fascismo, i risultati ufficiali attribuiscono alla Monarchia poco meno della metà dei voti. Un risultato comunque straordinario in gran parte dovuto al voto dei meridionali, cioè di coloro i quali vivevano nelle aree un tempo appartenenti al Regno delle Due Sicilie. A dimostrazione del fatto che l’odio nei confronti dei Savoia che i neoborbonici spargono attraverso i social e alcune pubblicazioni non apparteneva ai loro genitori e nonni i quali continuavano a ritenere che fosse stato un bene l’unità d’Italia, come avevano ritenuto i loro maggiori correndo ad arruolarsi sotto la bandiera del Generale Garibaldi che li aveva chiamati alla battaglia per la libertà nel nome di “Italia e Vittorio Emanuele”. Inutile insistere sul “tradimento” dei generali felloni, sull’influenza degli inglesi (del resto risalente, pensiamo a Lord Acton ed all’Ammiraglio Nelson) per spiegare le ragioni della dissoluzione progressiva e rapida del Regno, a cominciare dalla Sicilia che da sempre aveva avuto desiderio di indipendenza pagato con durissime repressioni, come nel caso del bombardamento di Messina ribelle.

Poi la rivolta diffusa contro la leva militare e le imposte, fatta passare per ribellione contro gli “invasori”, dimenticando che il brigantaggio in quelle regioni era endemico. Nella mia famiglia è da sempre vivo il ricordo, tramandato dai trisavoli, di viaggi col vapore da Bari a Napoli perché lungo le strade sarebbe stato impossibile raggiungere la capitale senza pagare pedaggio. Come il ricordo di amici napoletani del ”merdaiolo”, un signore che con una gerla sulle spalle raccoglieva di casa in casa quel che a Roma, da oltre due millenni va a finire nella cloaca massima.

Napoli era una città europea, bella e colta, nessuno lo nega ma la campagna ovunque era in mano ai latifondisti mentre i contadini sfruttati erano pronti alla rivolta contro i “cappeddi”, i signori che usavano il cappello a cilindro contro i quali i braccianti erano insorti a Bronte provocando la repressione “manu militari” di Bixio. Inevitabile, perché la nobiltà e la borghesia volevano con Tancredi de Il Gattopardo “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E il nuovo governo non poteva alienarsi le simpatie della borghesia colta, liberale.

La storia non si scrive con i se, lo sappiamo, ma è evidente che se Il Regno avesse compreso che era il momento di concedere la Costituzione ed avviare un percorso di libertà civili, forse l’Italia si poteva unificare in una forma confederata, considerati anche gli antichi legami di sangue tra i Borbone ed i Savoia.

Invece l’incapacità di percepire il nuovo, della Corte e della classe dirigente, hanno impedito una soluzione ordinata e guidata del processo unitario voluto dalle menti più illuminate.

Nel dopo, la lotta al brigantaggio aggressivo e crudele nei confronti delle autorità civili e militari del Regno d’Italia, non dei piemontesi, è stata condotta con i metodi dell’epoca, con l’esercito, con azioni cruente ignote a successive rivolte, come quella di Cerignola, negli anni ‘50 del secolo scorso, o di Reggio Calabria. I fatti di ieri non vanno mai valutati con la mentalità di oggi, quando rappresaglie e tribunali di guerra sono se non banditi certamente limitati.

A distanza di oltre 150 anni, tuttavia, sarebbe necessario che i fatti di allora fossero rimessi alla prudente narrazione degli storici per non diventare strumento di lotta politica attuale. Come, invece, avviene ad iniziativa di alcuni che spargono odio, convinti così di esorcizzare i mali attuali delle regioni meridionali attribuendone le cause ai Savoia ed ai piemontesi, indicazione evidentemente sbagliata considerato che il Sud ha avuto dal 1861 in poi importanti uomini di stato, Ministri, Presidenti del Consiglio e della Repubblica.

Indubbiamente i governi hanno dimenticato il Sud che, potenzialmente una risorsa preziosa per l’intero Paese, come aveva intuito Cavour, è rimasto indietro quanto ad infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali e acquedottistiche. L’acqua che manca in questa stagione è una macchia indelebile nella coscienza dell’Italia politica.

Credo che il Sud effettivamente rappresenti parte essenziale dell’Italia, quanto ad intelligenze personali ed a possibilità offerte innanzitutto dal clima e dalla natura che è, insieme alla cultura e all’arte, la ragione essenziale del turismo, risorsa importante dell’economia insieme all’agricoltura ed alla trasformazione dei prodotti della terra e ad una manifattura di qualità. C’è da fare molto perché accanto ad operatori all’altezza degli standard della ricezione e della ristorazione c’è ancora molta approssimazione.

Galvanizzare il Sud, come parte essenziale dell’Italia è compito delle classi dirigenti meridionali che non hanno bisogno di evocare vere o presunte prepotenze nella formazione dello Stato unitario, quello che Cavour auspicava – nell’indicare l’ineluttabile ruolo di Roma come capitale, sarebbe diventato un “grande stato”.

Insieme alla classe politica ed amministrativa un ruolo positivo può svolgerlo anche la Casa di Borbone. Ho sempre ammirato il Principe Carlo di Borbone, Duca di Castro, erede della dinastia del Borbone delle Due Sicilie, per il garbo con il quale cura la presenza del suo Casato nel contesto culturale e sociale dell’Italia meridionale. Attività culturali, rievocazioni di personalità e di eventi del Regno, commemorazioni sono sempre molto misurate, come la rivendicazione, sul sito della Casa Reale, dei “primati” dell’amministrazione dei Borbone nel corso della prima metà dell’800, a cominciare dalla notissima ferrovia Napoli-Portici ed dalle altre iniziative di carattere culturale, scientifico e sociale assunte dal Governo del Regno nello stesso periodo.

Per stare nell’attualità non serve rivangare errori e orrori del passato ai quali nessuno è estraneo. Seminare odio come fanno alcuni divulgatori di “primati” improbabili, come quello riferito alle risaie che avrebbero assicurato alla Sicilia una produzione di riso seconda solo alla Cina, tanto da spingere il piemontese Cavour a farle chiudere per evitare la concorrenza. Lo ricordiamo mentre la televisione dà conto della gravissima scarsità di acqua nell’isola, un fatto di cui i governanti almeno degli ultimi decenni si dovrebbero vergognare.

Al termine di queste considerazioni, da italiano amante del Paese e dei suoi abitanti, tutti indistintamente, dalle Alpi al Lilibeo, senza polemica, ma per indurre ad una riflessione coloro che narrano di fatti di ben diversa consistenza rispetto alla verità storica invito ad una verifica con la lettura del libro, documentatissimo, di Tanio Romano, siciliano, storico leader e Presidente nazionale dei giovani avvocati italiani, “La grande bugia borbonica -La verità controcorrente che smonta, per la prima volta, tutte le falsità pro Regno delle due Sicilie e contro il Risorgimento”.

Per assumere un atteggiamento che, senza ignorare la storia, la rimetta nelle mani degli specialisti, che non sono gli speculatori delle frustrazioni sudiste, ed assuma la consapevolezza dell’importanza della unità di questo Paese meraviglioso, unico al mondo nella sua configurazione geografica, che si chiama Italia.

di Salvatore Sfrecola

 

 

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