Nessuno spazio per allarmismi
Le scelte fatte fin qui in materia di welfare dimostrano però che, al di là dei facili catastrofismi, manca la capacità di comprendere i veri problemi del Paese e progettarne di conseguenza il futuro.
Come confermato dai dati Istat relativi al censimento 2022, la quota senior della popolazione non è mai stata così consistente nel nostro Paese dove gli ultra65enni sono circa 14 milioni, vale a dire poco meno del 24% del totale. Una percentuale destinata a salire, secondo le stime dell’Istituto, fino al 35% da qui al 2045-2050 quando, raggiunto il picco dell’invecchiamento, 1 italiano su 3 supererà i 65 anni. Con tutte le implicazioni socio-sanitarie del caso (si pensi al rischio di non autosufficienza), acuite dal fatto che in questa fase di transizione demografica non si sta modificando solo la struttura per età della nostra popolazione, ma anche la composizione delle famiglie, sempre più spesso mononucleari.
Un problema non di poco conto visto che l’Italia spicca sì nelle classifiche mondiali per aspettativa di vita alla nascita e a 65 anni ma, viceversa, tende ad arretrare quando si parla di invecchiare in buona salute. Insomma, si vive di più ma non necessariamente meglio, chiaro sentore della scarsa capacità della nostra classe dirigente di interpretare al meglio i trend che attraversano il Paese, progettandone di riflesso il futuro. Perché in effetti, mentre tv e giornali lanciano allarmi dai toni fin troppo sensazionalistici su “culle vuote” e “inverno demografico”, poco o nulla viene fatto (salvo la Legge Delega 22/2023 che, ancora in attesa dei decreti attuativi, pare limitarsi a distribuire denaro) per affrontare concretamente gli effetti del progressivo scivolamento degli italiani verso l’età anziana. Niente investimenti su screening e prevenzione, niente programmi di presa in carico sul lungo termine di malati cronici, soggetti soli e/o autosufficienti. Nessun piano per promuovere l’active ageing sul lavoro e nessuna revisione dei contratti collettivi, quando è evidente che la percentuale di lavoratori senior è destinata ad aumentare di pari passo con la conquistata longevità.
A riprova appunto di una scarsa progettualità, di cui il capitolo pensioni offre l’ennesima conferma. Nei prossimi 22/35 anni si pensioneranno le consistenti coorti del Baby Boom: all’incirca 8 milioni di lavoratori, pari a circa 364mila persone ogni anno. E, mentre la nostra politica non sembra considerare questi numeri gonfiando oltre misura la spesa assistenziale – sono 157 i miliardi assegnati a oneri assistenziali nel 2022, con una spesa (a carico della fiscalità generale) cresciuta del 126% nell’arco di un decennio – i catastrofisti si disperano per la futura mancanza di lavoratori. Problema che in verità abbiamo già oggi, ma non perché scarseggino davvero le “braccia”: con oltre 2 milioni di NEET e solo poco più di 23 milioni di lavoratori su una popolazione in età di lavoro di circa 38 milioni, l’Italia continua di fatto a privilegiare politiche passive, come decontribuzioni e misure a sostegno del reddito, a quelle volte a favorire le imprese o a ridurre il mismatch tra domanda e offerta di impiego.
Questo, a mio avviso, il nocciolo della questione. E, per comprenderlo, può essere utile qualche indicatore sulla sostenibilità della previdenza obbligatoria, tratto dall’Undicesimo Rapporto Itinerari Previdenziali, presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 16 gennaio. Innanzitutto, il numero dei pensionati che salgono nel 2022, ultimo anno di rilevazione disponibile, di 32.666 unità rispetto al 2021. Dopo un trend positivo avviato nel 2009 e proseguito con costanza fino al 2018 per effetto delle riforme previdenziali che hanno innalzato gradualmente i requisiti, i percettori di assegno pensionistico toccano quota 16.131.414, a fronte dei 16.004.503 del 2018, anno in cui si era arrivati al valore più basso di sempre. Un incremento ascrivibile soprattutto alle molteplici vie d’uscita in deroga alla Fornero introdotte dal 2014 in poi e culminate negli ultimi anni nell’approvazione dapprima di Quota 100 nel 2019 e, quindi a seguire, di Quota 102. Venendo poi alle prestazioni, nello stesso anno ne risultano in pagamento 22.772.004, +0,06% rispetto al 2021, pari a 13.207 trattamenti: rispetto al precedente Rapporto calano le prestazioni IVS e quelle indennitarie ma crescono quelle di natura assistenziale (+0,95%). Una tendenza che trova conferma anche nell’analisi di lungo corso: nel periodo 2008-2022, si rileva una diminuzione di ben 935.291 prestazioni, cui hanno contribuito soprattutto pensioni IVS (-4,92%) e prestazioni indennitarie (-32,60%); nello stesso arco temporale, i trattamenti assistenziali sono cresciuti del 7,06%.
Secondo prezioso indicatore è quello relativo all’occupazione. Dopo il brusco calo imputabile a SARS-CoV-2 e misure di contenimento dei contagi, la crescita del numero di occupati è proseguita anche nel 2022, risalendo fino a 23.298.000 unità, valore persino superiore a quello pre-pandemico (da considerare in ogni caso anche la contestuale variazione nel metodo di rilevazione Istat). E se lo slancio è continuato nel 2023, tanto che al 30 ottobre scorso il tasso di occupazione raggiungeva il 61,8%, record assoluto dal 1977, il mercato del lavoro italiano resta fanalino di coda in Europa. Secondo i dati Eurostat riferiti al terzo trimestre 2023, il nostro Paese è, infatti, all’ultimo posto per occupazione globale, distante di quasi 10 punti percentuali dalla media europea (61,4% contro 70,4%). D’altro canto, nonostante l’incremento dei pensionati con il miglioramento della situazione occupazionale si attesta a 1,4443 il rapporto attivi/pensionati, valore fondamentale per la tenuta di un sistema a ripartizione come quello italiano e che, solo nel 2019, registrava la quota record di 1,4578, miglior dato di sempre tra quelli rilevati dalla pubblicazione. Sul breve e medio termine si prevede un lento ma progressivo miglioramento, sempre che si riescano a tenere sotto controllo le conseguenze di scenari geopolitici incerti e a patto di investire in politiche industriali che sappiano rilanciare la stagnante produttività del Paese. Ciononostante, resta piuttosto distante quell’1,5 che a nostro giudizio sarebbe la soglia minima necessaria da raggiungere per garantire la stabilità di medio-lungo termine del sistema.
Insomma, volendo trarre le fila del discorso, allarmarsi non serve a nulla. A oggi la nostra previdenza è sostenibile e lo sarà anche in futuro, malgrado il pensionamento dei numerosi nati dal Dopoguerra al 1980. Perché si mantenga questo sottile equilibrio, sarà però indispensabile tenere conto, oltre all’importanza di prevenzione e invecchiamento attivo, di due principi fondamentali. Innanzitutto, le politiche attive per il lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job, e quindi le età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa (circa 63 anni l’età effettiva di uscita dal lavoro in Italia) e che dovranno dunque gradualmente aumentare evitando il ricorso a eccessive anticipazioni.
L’auspicio è quello di un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese, che al momento naviga a vista dinanzi alla più̀ grande transizione demografica di tutti i tempi, con grande parte della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo, quando invece – anche alla luce di un debito pubblico che vale quasi 3.000 miliardi di euro – la priorità dovrebbe essere una revisione dei nostri modelli produttivi. Sia chiaro che, nel frattempo, ogni iniziativa a favore della natalità è ben accetta. Ma poiché, salvo eventi improbabili come un repentino (e poco auspicabile) incremento dei migranti, la demografia dei prossimi anni è ormai già scritta, non resta ora che correre ai ripari “aprendo l’ombrello”, vale a dire prendendo misure adeguate non solo a non subire gli effetti dell’invecchiamento ma persino, se possibile, a trarre qualche positività dall’attuale fase storica.
di Alberto Brambilla (presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali). Da Il Libero Professionista Reloaded #20
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