Anno: XXV - Numero 214    
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Vittorio Emanuele Orlando era contrario al “premierato”

Filoreto D’Agostino, già alto magistrato del Consiglio di Stato, offre agli studiosi riflessioni tra politica e diritto. Lo ospita Il Fatto Quotidiano. In un suo recente articolo D’Agostino si sofferma sul “premierato”.

Vittorio Emanuele Orlando era contrario al “premierato”

. In un suo recente articolo D’Agostino si sofferma sul “premierato”, una ipotesi nella quale individua significative analogie con “le leggi fascistissime 1925-26”. Osserva come “la natura democratica e perciò antifascista della Repubblica esprime e configura il rifiuto di ogni soluzione che possa intaccare il principio, pacifico nei Paesi democratici, della distinzione di attribuzioni per evitare confusione nelle funzioni degli organi costituzionali. Di contrasto, il premierato è espressione del Führerprinzip, personalizzazione unitaria dei poteri in voga nella legislazione degli anni 30. La riforma del governo presenta disturbanti elementi regressivi, quasi una rievocazione dell’unica analoga esperienza che fu introdotta in Italia con legge n. 2263/1925 e operò fra il 1926 e il 1943”. Due, a suo giudizio, le analogie: riguardano il complesso dei poteri conferiti al primo ministro e la sua legittimazione costituzionale che nella formulazione originaria fu presentata come un ritorno al governo della Monarchia costituzionale, come disegnata dallo Statuto Albertino all’art. 5. In quel contesto il Governo era “del Re” e non rispondeva al Parlamento come, invece, volle Camillo Benso di Cavour fin dalla sua prima esperienza governativa. Per cui il governo sarebbe rimasto in carica finché avesse avuto la fiducia del Parlamento. D’Agostino richiama l’analisi acuta di Piero Calamandrei, secondo il quale la riforma voluta dal fascismo trasferiva “nel capo del governo prerogative finora riservate al capo dello Stato… invece che un ritorno alla purezza statutaria, era lo smantellamento di quell’ordinamento costituzionale che poneva negli articoli 3, 5 e 6 dello statuto la fondamentale garanzia della divisione dei poteri”.

Non solo Calamandrei ma, ben prima che il fascismo attuasse la riforma, l’idea di quello che oggi chiamiamo “premierato” era inviso ad un giovane studioso siciliano che sarebbe presto assurto al ruolo di fondatore della Scuola italiana del diritto pubblico, il Prof. Vittorio Emanuele Orlando, un liberale ammiratore del sistema costituzionale inglese e pertanto fortemente critico della riforma del governo attuata nella Germania del Cancelliere Otto von Bismarch, fondato sul primato dello Staatsoberhaupt, del complesso istituzionale monarchia-burocrazia-esercito. Un modello che Orlando non poteva apprezzare avendo egli sempre attribuito rilevanza al ruolo costituzionale delle assemblee legislative.

Della “forma di governo” Orlando aveva cominciato ad occuparsi fin dal 1886 in un saggio dedicato agli Studi giuridici su governo parlamentare nel quale, come sottolinea un illustre storico del diritto costituzionale, Maurizio Fioravanti, “fornisce una soluzione che rimarrà a lungo dominante, e che per certi versi ancora oggi ci costringe ad una certa riflessione sui caratteri della nostra tradizione costituzionale”. Che è la condanna dei due “estremi politici”, da una parte “quello radicale giacobino, che riduce il governo ad un mero comitato di esecuzione delle volontà politiche delle Camere, che riduce il governo parlamentare a mero governo d’assemblea, dall’altra parte quello tedesco-prussiano che emargina il ruolo della maggioranza politica e del Parlamento considerandolo meramente aggiuntivo alla sostanza istituzionale del governo, data dalla stessa monarchia”. Tra questi due estremi Orlando costruisce in alternativa la soluzione che è quella di un governo fondato sulla maggioranza presente in Parlamento ma anche sul ruolo certo e non meramente notarile del capo dello Stato. “Per Orlando – sottolinea ancora Fioravanti – non c’è un forte governo parlamentare senza una forte e stabile maggioranza politica, ma parimenti non c’è uno stabile governo senza un forte ruolo, di equilibrio, ma anche di sostegno, del Capo dello Stato”.

Orlando fu quindi contrario al cosiddetto “ritorno allo Statuto”, enunciato il 1° gennaio 1897 su la Nuova Antologia in un celebre articolo di un esponente di spicco della Destra Storica, Sidney Sonnino, futuro Ministro degli esteri. In particolare, Orlando non aveva in simpatia l’evoluzione verso il “governo del Premier”, che sostanzialmente tendeva a ridurre ad un ruolo meramente formale il Capo dello Stato, sottraendogli di fatto anche il fondamentale potere di scioglimento delle Camere. Strenuo difensore delle libertà statutarie il 22 novembre 1924 Orlando presenta alla Camera dei deputati un ordine del giorno col quale chiede “il ristabilimento della normalità statutaria” per poi dire a Mussolini che “la libertà non si definisce, si sente”. Il 16 gennaio 1925, dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio, che più tardi avrebbe definito un “vero colpo di Stato”, presenta insieme a Giolitti ed a Salandra, i massimi esponenti della politica liberale, un nuovo o.d.g. con il quale censura i metodi di governo “che non consentono l’espressione della volontà popolare”. Per lui è in atto un cambio di prospettiva costituzionale nella direzione di un regime autoritario che non procedeva verso una riaffermazione dell’autorità dello Stato nazionale, contro le ingerenze dei partiti di massa e dei grandi interessi organizzati, per affermare il primato del partito di maggioranza, destinato a diventare unico. Con negazione del ruolo del Parlamento che, strenuamente difende Gaetano Mosca, teorico della “classe politica”, che pure aveva denunciato i vizi del parlamentarismo. All’avvento del fascismo riscopre i valori del Parlamento contro la dittatura.

La lezione di Orlando, che non è soltanto uno studioso teorico ma un politico che ha ricoperto importanti incarichi governativi, più volte ministro e Presidente del Consiglio, è, dunque, attuale e il suo insegnamento va tenuto presente proprio nel momento in cui si discute del “premierato”, una riforma della quale, come sappiamo, non vi sono altri esempi in quanto l’unico a sperimentarlo è stato Israele che prontamente lo ha abbandonato. E dimostra che la ricerca della governabilità, giusta aspirazione della classe politica, si persegue con altri strumenti, in primo luogo con una legge elettorale che assicuri una maggioranza di eletti scelti dai cittadini. Un sistema all’inglese, insomma, fondato su collegi uninominali, che ha dato buona prova di sé assicurando, al termine dello scrutinio, la individuazione certa del Primo Ministro come espressione della maggioranza parlamentare. Funziona da secoli, ma in Italia i partiti preferiscono limitare il potere di scelta del cittadino elettore perché non intendono rinunciare alla scelta dei candidati da far eleggere, ma nei gruppi parlamentari, espressione autentica del consenso popolare.

 

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