Caso Sala: c'è un precedente nella storia della Repubblica, e fu risolto subito
La professoressa di Padova, autrice del recente "Non si tratta con i terroristi", racconta ad HuffPost del caso di Said Rachid, gestito nel 1983 da Andreotti: "Molti Stati mediorientali hanno spesso utilizzato la presa di ostaggi come arma non convenzionale".
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“Sul piano storico l’Italia ha già affrontato i possibili scenari del caso di Cecilia Sala”. A parlare con HuffPost è Valentine Lomellini, professoressa dell’Università di Padova, dove insegna “Terrorism and Security Cooperation” e dirige il Centre for Security Studies. Scorrendo il suo libro più recente, dal titolo provocatorio “Non si tratta con i terroristi” (Laterza), troviamo diversi spunti interessanti per leggere gli sviluppi futuri della detenzione della giornalista del Foglio e di Chora Media, imprigionata in Iran il 19 dicembre scorso.
Professoressa, partiamo dalle basi: con i terroristi si tratta oppure no?
La realtà è che si è sempre trattato con i terroristi. I governi l’hanno sempre fatto, sia in situazione di assedio, dove si conosce la collocazione degli ostaggi, sia in caso di sequestro. Restano fuori solo alcune vicende eclatanti, come il rapimento di Aldo Moro.
E con gli Stati ostili all’Occidente, come appunto l’Iran, cosa cambia?
Molti Stati mediorientali hanno spesso utilizzato il terrorismo come arma non convenzionale. Questo prevede anche la presa di ostaggi. Se guardiamo all’Iran, il rimando classico è quello della presa dell’ambasciata americana a Teheran nel novembre 1979. Più di recente, nel 2014, il governo statunitense ha accettato di scambiare cinque prigionieri talebani con il soldato americano Bowe Bergdahl. Questi accordi però non vanno letti come un cedimento da parte dello Stato, semmai come un tentativo di influire sul comportamento del proprio interlocutore politico e indurre il governo ostile a liberare gli ostaggi o ad adottare un atteggiamento meno vessatorio nei confronti del prigioniero.
Cos’è la diplomazia degli ostaggi, lo strumento utilizzato dagli iraniani?
In realtà, questa specie di diplomazia fa parte di un fenomeno più ampio. Parlo della diplomazia del terrore, un termine usato dagli anni ’60 per indicare quegli Stati che non solo sostenevano gruppi terroristici ma arrestavano anche di loro pugno cittadini stranieri sul proprio suolo. Tutto per perseguire i propri scopi politici.
Quando leggiamo il caso Sala, ci sembra di assistere a uno stallo alla messicana. L’Italia è già stata coinvolta in trattative del genere?
C’è un caso simile a quello della giovane giornalista: l’arresto di Said Rachid, un cittadino libico che era stato fermato in Francia nel 1983 per l’assassinio di Azzedin Lahderi, uomo di affari anche lui libico ma espatriato in Italia dopo la rivoluzione di Gheddafi. L’Italia avrebbe potuto richiedere l’estradizione ma, come misura ritorsiva per l’arresto, Gheddafi decise di bloccare all’aeroporto di Tripoli 39 francesi in partenza per Parigi e trasformò in ostaggi altri 1500 francesi residenti in Libia. Tutto si mosse velocemente a livello diplomatico, con il ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti che, dialogando con l’omologo francese, decise di lasciar scadere i termini per chiedere l’estradizione, consentendo a Rachid di rifugiarsi all’estero, impunito. Si fece passare per tradizionale disorganizzazione italiana quella che, in realtà, era una scelta politica ardita.
E non fu l’ultima, pensiamo a Sigonella e alla decisione di Craxi di opporsi a Washington.
Il premier italiano Bettino Craxi disattese le richieste degli Stati Uniti quella volta, lasciando scappare, nonostante le richieste americane di estradizione, Abu Abbas, ritenuto il mandante del sequestro dell’Achille Lauro. Abbiamo rifiutato in passato richieste di estradizioni quindi e per questo dico che l’Italia, nella propria storia, ha già sperimentato diverse opzioni che possiamo ritrovare oggi nel caso Sala.
Già, ma l’arresto di Abedini, l’informatico iraniano detenuto in Italia dal 16 dicembre che Washington vorrebbe estradare, rende il quadro complicato anche a livello legale e intanto Sala è in carcere. Cosa dovrebbe fare l’Italia?
Sotto un profilo di realpolitik, dato il momento di transizione nell’amministrazione americana, il nostro Paese dovrebbe cercare una soluzione più ragionata e condivisa. Insomma, introdurre un ulteriore elemento di negoziazione, superando la connessione diretta dello scambio Abedini-Sala.
Quindi l’Italia deve trattare. Non rischia di compromettere la sua reputazione scendendo a patti con la Repubblica islamica di Teheran?
Tendenzialmente uno Stato è incline a negoziare nel momento in cui l’obiettivo dell’organizzazione terroristica o dello Stato straniero non è massimalista, quindi assoluto e irraggiungibile. Ovvio è che se, per assurdo, l’Iran chiedesse all’Italia, come obiettivo per il rilascio, di diventare una teocrazia, per Roma sarebbe impossibile trattare. Ma in questo caso si può, trovando un elemento di contrattazione differente, magari pensando ad una maggiore collaborazione tecnologica oppure offrendo il nostro know how in un determinato ambito. Questo è un deal che si può chiudere. Se tutto invece ruota solo attorno allo scambio Sala-Abedini, diventa difficile.
Guardando ai precedenti storici e alla sua esperienza in campo di terrorismo, lei quindi è pessimista?
No, sul risultato finale non sono negativa. Il problema con l’Iran sono sempre le tempistiche e temo che non si accorceranno perché i capi di imputazione non sono ancora chiari. Comunque, ripeto, una trattativa è necessaria e non va intesa come un cedimento dell’Italia ma come la giusta richiesta di uno Stato sovrano di capire gli eventuali capi di imputazione, garantire le condizioni di vita di Sala e, auspicabilmente, vederla scarcerata in tempi rapidi.
Cosa ne pensa del silenzio stampa chiesto dai genitori di Sala? Il trambusto mediatico rischia di far allungare i tempi del rilascio oppure tiene viva l’attenzione?
Una volta che una notizia esce sulla stampa i margini di manovra si restringono molto. Le trattative sono sempre riservate e se vengono resi noti i termini di negoziazioni poi è complesso giustificare determinate scelte all’opinione pubblica. Parliamo di un equilibrio difficile.
“Caso Sala: c’è un precedente nella storia della Repubblica, e fu risolto subito”
La professoressa di Padova, autrice del recente “Non si tratta con i terroristi”, racconta ad HuffPost del caso di Said Rachid, gestito nel 1983 da Andreotti: “Molti Stati mediorientali hanno spesso utilizzato la presa di ostaggi come arma non convenzionale”
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