Come nell'Ottocento, sfere d'influenza e territori di conquista: Trump si farà malissimo
Intervista a Stefano Silvestri Consigliere scientifico, IAI "Più che per l'America first i primi atti sono da America minus. C'è un elemento di disperazione in tutto questo. Gli americani sono spaventati - dall'immigrazione, dal costo della vita, dalla solitudine, dal fallimento. Trump ha promesso loro di risolvere tutto questo tornando agli anni d'oro. Secondo me, non li ritroverà mai".
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“Sembra di essere in quel film – Tutti a casa – con Alberto Sordi nei panni di un sottotenente italiano l’8 settembre. A un certo punto scappa perché i tedeschi gli sparano; telefona al comando dicendo: attenzione, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano addosso!”. Prima di iniziare con l’intervista, Stefano Silvestri, presidente emerito dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), si concede una risata e questa immagine per descrivere lo sconvolgimento del mondo di Trump, tra alleanze maltrattate e nuove sintonie, guerre dei dazi e visioni imperiali, pace imposta e imposto riarmo.
Qual è la sua lettura del mondo in cui il presidente Usa Donald Trump sta sconvolgendo il sistema delle relazioni internazionali?
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Due sono gli aspetti più significativi sul piano generale. Il primo è questa adesione di Trump alla visione – che era tipica di Vladimir Putin ma forse anche di Xi Jinping – delle sfere di influenza. Secondo questa visione, ci sono delle sfere di influenza in cui le grandi potenze possono fare, sostanzialmente, quello che vogliono. È senza dubbio il caso di Putin, secondo cui l’Ucraina debba far parte della sua sfera di influenza. La cosa straordinaria, ora, è che sono proprio gli Stati Uniti – il Paese che aveva costruito dal dopoguerra un sistema internazionale multilaterale basato sulle regole, essendo contro l’idea delle sfere di influenza – a cadere in questa trappola culturale, forse perché nel tempo si sono indeboliti. È un fatto che stupisce e disorienta, in un certo senso.
Il secondo elemento qual è?
È il fatto che, apparentemente, gli americani non credono più nelle alleanze. Hanno una visione delle alleanze utilitaristica, casuale, volta per volta. È un aspetto che stupisce perché, fino ad oggi, le alleanze sono state lo strumento principale della potenza americana. Non credere nelle alleanze, pensare che gli alleati siano qualcosa di poco importante, che può essere preso o abbandonato a seconda dell’interesse immediato, indica – anche qui – non tanto un’America first ma un arretramento dell’America dal sistema internazionale. Nel complesso, noi abbiamo un presidente americano che afferma di voler mettere di nuovo l’America al primo posto ovunque, ma che – in sostanza – sta cedendo terreno. Anche il fatto che abbia così facilmente sposato le tesi di Putin sul conflitto con l’Ucraina, ma anche le posizioni di Benjamin Netanyahu sul conflitto in Medio Oriente, dà l’idea di una rinuncia ad avere tesi proprie, americane: un disinteresse, forse, ma comunque un arretramento rispetto al passato. Nel complesso, quindi, direi un presidente che – più che per l’America first – sta agendo in una chiave di America closed and smaller (chiusa o più piccola), o America minus.
Eppure Trump promette di volersi espandere, cominciare dalla Groenlandia. Cosa ci dice questo ritorno al territorio come sinonimo di potenza?
Sembra tornato alla ribalta il concetto ottocentesco – anche in questo caso derivante dalla logica delle sfere di influenza – secondo cui la sicurezza si garantisce conquistando territori, per cui se gli Stati Uniti vogliono essere sicuri nell’Artico devono avere il Canada e la Groenlandia; se la Russia vuole essere sicura nei confronti dell’Europa, deve riprendersi quanto più possibile l’Europa orientale, e così via. È una visione curiosa, in una situazione in cui in realtà le frontiere avevano e hanno – con la globalizzazione – sempre minore importanza. Costringere [gli altri Paesi] a riprendere il discorso delle frontiere è un arretramento del sistema internazionale, verso un uso molto più comune della forza.
Prima ha detto che la visione delle sfere di influenza appartiene certamente a Putin, ora anche a Trump, ma ha messo in forse Xi Jinping. Perché?
La Cina, secondo me, è la potenza che potrebbe essere più preoccupata per questa evoluzione, un po’ come l’Europa. Anche la Cina non ha interesse, in questo momento, a fare delle sfere di influenza, specialmente se la Russia acquista forza perché ha un buon rapporto con gli Stati Uniti. Per noi europei, i cinesi restano comunque dei rivali, però potremmo avere una comunanza di interessi.
In molti si chiedono se lo stravolgimento imposto da Trump sia qui per restare o meno. Lei cosa pensa?
Siamo certamente di fronte a un mutamento profondo dell’America, anche se non sappiamo quanto stabile e profondo sia. Senza dubbio c’è stata una crisi politica e di comunicazione interna americana dovuta a tanti fattori: i nuovi media, la crisi economica, la globalizzazione, le guerre perdute, perché poi questa America non ha fatto che perdere guerre in questo periodo. C’è un elemento di disperazione in tutto questo. Gli americani sono spaventati – dall’immigrazione, dall’aumento del costo della vita, dalla solitudine, dal fallimento. Trump ha promesso loro di risolvere tutto questo tornando agli anni d’oro. Secondo me, gli anni d’oro non li ritroverà mai, anzi potrebbe aggiungere crisi a crisi. I dazi fanno malissimo anche all’America, se non altro perché aumentano l’inflazione. Mi sembra difficile che a fronte di una diminuzione delle importazioni dall’Europa o dal Giappone, ad esempio, corrisponda un forte aumento delle esportazioni americane. Il mercato interno americano senza il contributo dei mercati esterni non credo sarà sufficiente ad alimentare questa politica.
Poiché Trump e Putin condividono una visione imperiale del mondo, l’Ucraina sarà costretta ad accettare una “pace” imperiale?
“L’Ucraina ha poca scelta. Se l’America le toglie gli aiuti militari e di intelligence, è costretta in qualche maniera a venire a patti, che è quello che credo stia cercando di fare in questo momento Volodymyr Zelensky. Il punto è che dobbiamo ancora vedere che tipo di accordo voglia fare Putin, che finora non è sembrato disposto a cedere assolutamente su nulla. Potremmo arrivare a un punto in cui persino Trump inizi a domandarsi se gli conviene così tanto regalare questa guerra a Putin”.
Cosa deve fare l’Europa per attrezzarsi a questa nuova realtà?
“L’aumento delle spese per la difesa è inevitabile. Bisognerà vedere in che forma e in che misura, e soprattutto se riusciremo a spenderlo in maniera intelligente, perché se si perde in mille rivoli nazionali servirà a poco. Bisognerebbe che servisse per aiutare la formazione di un vero mercato interno, quindi una razionalizzazione dell’industria della difesa e potenzialmente la scomparsa delle distinzioni nazionali nei sistemi d’arma”.
di Giulia Belardelli su Huffpost
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