Anno: XXVI - Numero 36    
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Ecco perché i padri costituenti vollero l’immunità per i rappresentanti del popolo

La norma che proteggeva i parlamentari dal potere giudiziari venne modificata nel ‘93, nel pieno delle inchieste su Tangentopoli.

Ecco perché i padri costituenti vollero l’immunità per i rappresentanti del popolo

“Nell’assemblea che scrisse la Carta c’erano ampie convergenze in un confronto laico. Cosa sorprendente se si pensa alle barricate erette oggi quando si parla di giustizia”, spiega Giovanni Gizzetta

L’articolo 68 della Costituzione sulla cosiddetta “immunità parlamentare” o “immunità penale” è stato modificato con la legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3. Trentadue anni fa l’esigenza del legislatore di intervenire sulla norma originaria, presente nella Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, fu dettata dal terremoto provocato dalle inchieste e dagli arresti di “Mani pulite”. La classe politica del nostro Paese dell’epoca venne spazzata via per aprire la fase della “Seconda Repubblica”.

Partiamo dal dato normativo. L’articolo 68 prevede che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Il secondo comma stabilisce invece che “senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”.

Al terzo comma si aggiunge che “analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. Prima del 1993, era previsto l’intervento del Parlamento per autorizzare l’inizio delle indagini su un membro di una Camera e per procedere all’arresto in attuazione di una condanna definitiva.

L’immunità parlamentare, contenuta nell’articolo 68, esiste tuttora. «Ma nel disgraziato annus orribilis 1993 – come ha rilevato il presidente della Fondazione Einaudi, Giuseppe Benedetto (si veda Il Dubbio dell’8 febbraio) – è stata cambiata la nostra Carta espungendo dall’articolo il cuore dello stesso, cioè l’autorizzazione a procedere. Cioè la possibilità per il Parlamento di intervenire quando un pubblico ministero chiede ad esempio l’avvio di un procedimento penale nei confronti di un membro del Parlamento stesso. Questa norma voluta dai nostri padri costituenti, come Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti, è stata poi modificata da personaggi di ben altro spessore proprio in quella legislatura».

Nei lavori dell’Assemblea costituente venne riconosciuta ai parlamentari una immunità molto più estesa. Era infatti necessaria l’autorizzazione anche per avviare indagini a carico di un parlamentare – deputato o senatore – per arrestarlo pur in presenza di una condanna irrevocabile. Le cose, come detto, cambiarono con le inchieste di “Mani pulite” e con i referendum contro la partitocrazia. I lavori che hanno portato alla stesura dell’articolo 68 nella versione originaria presero in considerazione esigenze molto precise. Quasi ottant’anni fa si decise di conferire ai parlamentari una immunità robusta.

«I costituenti – evidenzia Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Roma “Tor Vergata” –, come si evince chiaramente dai lavori dell’Assemblea Costituente, condividevano una duplice preoccupazione. Da un lato quella di un possibile condizionamento della magistratura da parte della politica e dall’altro quella di un rischio di chiusura autoreferenziale e corporativa della magistratura, con effetti anche di tensione tra politica e giurisdizione. Conseguentemente la soluzione fu quella di accentuare la separazione tra le due sfere di potere: da un lato con la creazione di un circuito di autonomia dell’organizzazione amministrativa della magistratura e dall’altro con l’introduzione, tra l’altro, dell’istituto dell’autorizzazione a procedere da parte delle Camere. Per un verso, nacque, così, il Csm, peraltro in una composizione tale da rendere maggioritaria la componente togata. Soluzione che fu preferita “in zona Cesarini”, e non senza esitazioni, visto che il progetto base su cui discusse l’Assemblea prevedeva una composizione paritaria.

Per altro verso, fu prevista, appunto, l’autorizzazione a procedere nel caso di iniziative giudiziarie che riguardassero i parlamentari in carica. Essa, è bene ricordarlo, valeva solo per il periodo in cui i parlamentari esercitavano la funzione, potendo viceversa la magistratura procedere senza più necessità di autorizzazione alla fine del loro mandato».

La discussione che ha portato all’articolo 68 della Costituzione, nella versione rimasta in vigore fino al 1993, ha registrato una certa uniformità di vedute. «Le posizioni dei costituenti – spiega il professor Guzzetta – erano molto convergenti nel contesto di un dibattito molto laico. Una cosa sorprendente se si pensa alle barricate che oggi vengono erette ogni qual volta si parli dei temi della giustizia. L’unica posizione eccentrica, almeno nella prima fase, fu quella di Palmiro Togliatti che, nella logica giacobina propria del fronte popolare, avrebbe voluto dei giudici scelti mediante elezione popolare e quindi di derivazione politica. Non dimentichiamo che Togliatti era anche fortemente contrario alla Corte costituzionale. Era inconcepibile, nella sua visione, che ci fosse un organo legittimato a sindacare le scelte del Parlamento, quale organo espressione diretta della sovranità popolare».

Alcuni momenti storici hanno dimostrato che la Carta Costituzionale può essere modificata. Non è un’eresia, come rileva Giovanni Guzzetta: «Non vi sono dubbi che la Carta costituzionale possa essere modificata, con il solo limite di quei principi supremi e diritti inviolabili che ne costituiscono il nucleo duro, secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale. Aggiungo, se mi consente un’autocitazione del volume “La Repubblica transitoria”, che il procedimento di revisione fu concepito in termini di una rigidità tendenzialmente più attenuata rispetto ad altre soluzioni che si imposero in altre Costituzioni dell’epoca».

Un nuovo intervento sull’articolo 68 della Costituzione, dunque, alla luce delle ultime prese di posizione di alcuni partiti, non è da escludere. Occorre un approccio realistico e non ipocrita. «Non vedo – aggiunge il costituzionalista di “Tor Vergata” – alcuna preclusione giuridica a un intervento in questo senso. Si tratta comunque di una valutazione squisitamente politica e di opportunità, sulla quale non ho alcun titolo per pronunciarmi. Ciò detto, però, ritengo che sia intellettualmente onesto segnalare come, abbandonata la soluzione originaria, quella della netta separazione, e cioè di una simmetria tra garanzia dell’indipendenza della magistratura dalla politica e speculare garanzia dell’autonomia della politica dalla magistratura, l’evoluzione di questi ultimi anni abbia talvolta determinato situazioni di squilibrio, enfatizzate da derive populistiche e antipolitiche, che hanno accentuato la conflittualità. Io credo che l’articolo 68 avrebbe bisogno di un “tagliando”, anche se la soluzione non dev’essere necessariamente quello del ritorno all’antico e all’autorizzazione».

Un esempio? «La soluzione – conclude il professor Guzzetta – per le intercettazioni dei parlamentari è una sorta di ossimoro, che il ministro dell’epoca, l’insigne costituzionalista Paolo Barile, non mancò di sottolineare. L’intercettazione, infatti, è un classico atto di indagine “a sorpresa”, prevedere una previa autorizzazione per procedere a intercettare un parlamentare è una pura ipocrisia che serve solo come alibi per non dire che le intercettazioni sono semplicemente vietate. Un’ipocrisia che, però, produce danni, perché, com’è noto, la giurisprudenza costituzionale ammette le intercettazioni casuali dei parlamentari; quelle cioè in cui il parlamentare è solo un indiretto e casuale interlocutore di chi è destinatario dell’intercettazione. In questo modo però si aggiunge oggettivamente ipocrisia a ipocrisia. Perché il parlamentare che sa di poter essere intercettato, seppur casualmente, sarà condotto a comportarsi di conseguenza, optando per un atteggiamento di comunicazione prudente e difensiva. E così una norma che era nata per tutelare, a torto o a ragione, il diritto del parlamentare di comunicare liberamente senza il timore di essere intercettato a sua insaputa, oggi ha realizzato l’effetto opposto di ipotecare la libertà di comunicare dello stesso, senza doversi preoccupare di un possibile utilizzo di quanto dice e di come lo dice. Ormai l’unica tutela residua si ha quando un parlamentare comunica con un altro parlamentare o altro titolare di immunità, perché in tal caso non può esservi, per definizione, una intercettazione casuale».

Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio

 

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