Anno: XXVI - Numero 3    
Lunedì 6 Gennaio 2025 ore 14:00
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Ladan Boroumand. Le democrazie liberali sono in pericolo

Non sono abbastanza severe nei confronti dell’islamismo.

Ladan Boroumand. Le democrazie liberali sono in pericolo

La storica e attivista iraniana, Ladan Boroumand, in esilio parla con Huffpost della sua storia personale, dell’Iran di ieri e di domani, della protesta delle donne, del totalitarismo islamico: “Il regime di Teheran si infiltra regolarmente nelle democrazie, vuole sovvertirle dall’interno”. E il “lassismo” nella risposta porta a “un altro tipo di estremismo”, perché “parte dell’opinione pubblica occidentale inizia a credere che la democrazia non sia più in grado di difendere la loro cultura, il loro modo di vivere, i loro valori”.

“Il lassismo delle democrazie liberali nei confronti dell’islamismo è estremamente pericoloso. La Repubblica islamica dell’Iran sta tentando di sovvertire, destabilizzare dall’interno le democrazie europee e occidentali. Finché non esisterà una sorta di coordinamento tra Paesi democratici per contrastare il totalitarismo islamico, la democrazia liberale sarà in pericolo”. Ladan Boroumand è una storica e attivista per i diritti umani di origini iraniane. Nata a Teheran, Boroumand ha vissuto in esilio prima a Parigi, poi negli Stati Uniti. Esperta della Rivoluzione islamica e del totalitarismo iraniano, è anche co-fondatrice dell’Abdorrahman Boroumand Center for the Promotion of Human Rights and Democracy in Iran, nato nel 2002 con l’obiettivo di creare una transizione democratica e pacifica in Iran.

Intervistata da Huffpost, la studiosa parla delle attività sovversive della Repubblica islamica all’interno delle democrazie europee e occidentali in generale, degli attacchi del regime iraniano contro i dissidenti che vivono all’estero, del rischio di sovvertimento dei valori democratici. Ma anche della forza della verità, che, secondo Boroumand, è “l’unica alternativa ai populismi e alle autocrazie” e quindi anche l’unica alternativa per un futuro diverso in Iran.

Ladan Boroumand, delle proteste in Iran contro il regime si parla sempre meno sui media internazionali. Qual è lo stato attuale delle manifestazioni?

All’inizio del movimento “Donna, Vita, Libertà” il regime è stato sorpreso dalle modalità con le quali le giovani e i giovani si impadronivano dello spazio pubblico. Il regime non si aspettava che le nuove generazioni manifestassero il loro malcontento e il loro desiderio per una società che fosse di fatto laica attaccando uno dei simboli più caratteristici del regime che è l’hijab, il velo imposto, che le nuove generazioni hanno bruciato. Ci sono voluti diversi mesi e una repressione durissima affinché il regime riprendesse possesso e controllo dello spazio pubblico. Le manifestazioni oggi sono molte meno di un tempo, si sono attenuate. Quindi, se all’inizio il regime è stato sorpreso dai manifestanti, si può notare che solo con la pura violenza è riuscito a reprimere le proteste.

Ma il regime oggi ha ancora presa sulla popolazione?

La repressione violenta delle manifestazioni, così come è accaduto nel 2017 e nel 2019, non ha risolto i problemi del regime. C’è una rottura totale tra lo Stato e la società. E questa rottura, attraverso la repressione, non è stata riparata. Per prevenire una nuova ondata di proteste, il regime ha optato per una nuova strategia di attacco.

Quale?

Si sta concentrando sull’infiltrarsi tra gli oppositori e i dissidenti al regime, allo scopo di seminare discordia e sospetto tra loro. Gli agenti del regime si trasformano in finti oppositori e dissidenti e usano questa copertura per attaccare i veri oppositori e dissidenti. Il regime è riuscito ad occupare lo spazio virtuale che era l’unico spazio rimasto alla dissidenza ed è riuscito a destabilizzare i diversi gruppi dell’opposizione che fino a poco tempo avevano rapporti cordiali e collaboravano insieme. Ad esempio, non so se ricorda, ma un anno fa diversi dissidenti del regime hanno formato una coalizione, conosciuta con il nome di “gruppo di Georgetown”, il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte. Il regime sa che l’unità plurale dell’opposizione è la condizione sine qua non di un progresso verso un cambio di regime.

La dissidenza iraniana all’estero si è trovata impreparata?

Credo che i dissidenti iraniani non fossero pronti per questa modalità di attacco, non se l’aspettavano. Ci troviamo ora in una situazione in cui la dissidenza iraniana deve riflettere seriamente su come contrastare questa nuova forma di repressione che gioca sul terrore psicologico. 

Del gruppo di Georgetown fa parte Masih Alinejad, giornalista e attivista dissidente iraniana che è stata messa sotto scorta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, avendo subito attentati dai servizi di sicurezza iraniani. Mentre solo qualche giorno fa si è appreso che l’ex ministro della Giustizia canadese, Irwin Cotler, è sotto sorveglianza perché l’Iran lo ha messo nella sua lista nera, dove si trovano diversi dissidenti al regime che vivono in Occidente. La dittatura iraniana s’infiltra facilmente nelle democrazie europee e occidentali?

Le infiltrazioni della Repubblica islamica nelle democrazie europee e occidentali avvengono regolarmente. Il regime iraniano collabora ora anche con la rete criminale, con la mafia, che recluta per compiere gli omicidi. Il caso di Masih Alinejad è abbastanza rappresentativo in questo senso. Anche il media Iran International ha ricevuto numerosi attacchi dalla Repubblica islamica attraverso la mafia. Il regime iraniano continua e continuerà a farlo. Ciò che conta è la risposta da parte delle democrazie occidentali. Ci deve essere un coordinamento per proteggere questi dissidenti islamici, il fatto che Alinejad sia protetta dall’Fbi è una notizia positiva. Tra un mese o due il nostro centro Abdorrahman Boroumand Center for Human Rights pubblicherà un piano interattivo della repressione transnazionale della Repubblica islamica: secondo questi dati, dalla fondazione della Repubblica islamica più di 500 dissidenti sono stati assassinati in tutto il mondo dal regime. Recentemente il regime attua più comunemente contro i dissidenti dei cyberattacchi. Anche la mia email personale è stata hackerata e il Dipartimento di giustizia americano ha presentato una denuncia contro tre agenti della cyber security dell’esercito iraniano. Il mio nome compare nello stesso dossier di denuncia nei confronti della Repubblica islamica di Donald Trump, stilato da parte del Dipartimento americano. All’interno del medesimo dossier ci sono anche funzionari del Dipartimento di Stato Usa o di altre istituzioni americane specializzate in politica estera, finiti nella lista nera della Repubblica islamica.

Che cosa dovrebbero fare le democrazie occidentali per difendersi?

Devono prendere sul serio la situazione reagendo con forza alle attività sovversive della Repubblica Islamica nel loro Paese. Credo che sia necessario un centro comune di cooperazione e collaborazione per contrastare queste attività e perseguire severamente i loro autori. Devono essere perseguiti gli agenti che lavorano per la Repubblica Islamica, ma anche coloro che danno ordini a questi agenti. Solo un’azione congiunta potrebbe limitare la capacità della Repubblica islamica di proseguire queste attività sovversive e criminali nelle democrazie liberali.

Quale rischio stiamo correndo?

La guerra che la Repubblica Islamica sta conducendo contro questi dissidenti è solo una parte di una guerra molto più ampia, essenzialmente ideologica, che sta conducendo contro la democrazia liberale in generale. La Repubblica Islamica e il regime iraniano, l’islamismo in generale direi, stanno utilizzando le possibilità offerte dallo stato di diritto della democrazia liberale per sovvertire dall’interno la democrazia. Si stanno avvalendo della libertà d’espressione per stabilirsi nei territori dei Paesi democratici, stanno comprando e corrompendo le istituzioni democratiche occidentali con finanziamenti e denaro sporco. Il lassismo delle democrazie liberali nei confronti dell’islamismo porta ad un altro tipo di estremismo. Una parte dell’opinione pubblica dei Paesi europei inizia a credere che la democrazia non sia più in grado di difendere la loro cultura, il loro modo di vivere, i loro valori. Una fetta della popolazione comincia a pensare che siano necessari regimi autoritari per proteggere lo stile di vita e la cultura occidentale. E così si crea una sorta di rapporto simbiotico tra l’islamismo e il fascismo tradizionale o la xenofobia dell’estrema destra in diversi Paesi europei. E guardi, è un fatto gravissimo. Questo accade perché le democrazie liberali non sono abbastanza severe nei confronti dell’islamismo, eppure voglio sottolineare che potrebbero far rispettare le proprie leggi e i propri valori senza essere di estrema destra o senza essere fasciste.

Ecco perché le proteste del popolo iraniano contro la dittatura della Repubblica islamica sono anche una lotta per i diritti nelle democrazie occidentali…

È quello che continuo a ripetere già dalle proteste del 2009. Le donne iraniane che protestano in Iran si battono per i diritti delle donne francesi ed europee in generale, tanto quanto per i propri diritti. È anche la storia degli ucraini, che lottano e muoiono anche per la libertà di altri Paesi, per i cittadini di altri Paesi europei. È una lotta collettiva che dobbiamo condurre tutti insieme contro i regimi che mirano a destabilizzare, a sovvertire le democrazie liberali.

Le democrazie europee invece sembrano aprire a Teheran. Ieri Regno Unito, Francia e Germania hanno incontrato alti diplomatici iraniani per discutere del programma nucleare di Teheran. La Repubblica islamica vuole tornare a dialogare con le democrazie occidentali?

Ho scritto un’analisi in cui ipotizzavo che con la probabile elezione di Donald Trump e con l’attacco del 7 ottobre che ha condotto l’Iran di fronte alla sua responsabilità geopolitica nella regione, la Repubblica islamica si sarebbe trovata in una situazione piuttosto difficile. Come reazione a questa difficoltà i dirigenti iraniani hanno ritenuto di dover tornare a giocarsi la carta dei buoni e cattivi attraverso la quale, per decenni, hanno manipolato le democrazie occidentali. Pezeshkian (Masoud, presidente dell’Iran -ndr) è stato scelto proprio con l’obiettivo di dialogare con le democrazie occidentali e trovare un accordo, anche temporaneo, per prendere tempo. Il regime islamico ha bisogno di tempo, di diplomazia e di cessate il fuoco per provare a ricostruire i suoi proxy, Hezbollah e Hamas, pesantemente danneggiati dagli attacchi israeliani. 

La sua storia personale è legata ad assassini perpetuati dalla Repubblica islamica in Europa. Suo padre, Abdul Rahman Boroumand, avvocato iraniano dissidente a Parigi, molto vicino a Chapour Bakhtiar – ultimo primo ministro iraniano prima dell’avvento di Ruhollah Khomeini e forte oppositore della Repubblica islamica – è stato ucciso nell’aprile del 1991 nel contesto di diversi omicidi politici perpetrati dalla Repubblica Islamica. Lei che cosa prova ripensando oggi a quell’assassinio?

Mio padre era un dissidente. Dopo il suo omicidio mi sono sentita senza speranza, non tutelata dal governo francese che avrebbe dovuto proteggere la mia famiglia. Il governo francese aveva fallito. L’allora presidente francese François Mitterrand, infatti, aveva appena accordato, qualche mese prima, la grazia a Anis Naccache, libanese convertito allo sciismo, che stava scontando, insieme ad alcuni suoi complici, una condanna all’ergastolo per aver ucciso due persone nel 1980 a Parigi, durante il primo tentato assassinio di Chapour Bakhtiar. La concessione di questa grazia era la condizione per un miglioramento delle relazioni franco-iraniane. È stato anche il saldo di un debito contratto per la liberazione degli ostaggi francesi che erano in Libano. È quello che le democrazie occidentali continuano a fare oggi: scambiare assassini con ostaggi e in questo modo garantiscono l’impunità della Repubblica islamica. Dopo la grazia concessa a Naccache, nel luglio del 1990, nell’ottobre del 1990 è stato assassinato a Parigi l’oppositore monarchico Cyrus Elahi. Nell’aprile del 1991 mio padre e nell’agosto del 1991 Bakhtiar. Quando mio padre è stato ucciso il governo francese ha immediatamente incaricato la polizia antiterrorismo di indagare, quindi sapeva perfettamente che si trattava di un crimine di Stato. Allo stesso tempo, in seguito a questi ripetuti omicidi, non c’è stata alcuna protesta ufficiale da parte della Francia contro la Repubblica islamica; Mitterrand, dopo l’uccisione di Bakhtiar, ha annullato una visita ufficiale a Teheran, ma lo ha fatto perché costretto dall’enorme polverone contro di lui che si è creato sui giornali nazionali. Le relazioni franco-iraniane non hanno tuttavia subito alcuna conseguenza. Per noi è stata l’amara consapevolezza che, in un certo senso, ci fosse una tacita intesa tra il governo francese e quello iraniano. La Francia allora ha tollerato che il regime iraniano imponesse la propria sovranità in Francia, perché l’esecuzione di mio padre e di altri oppositori era stata ordinata dalle autorità iraniane. Una democrazia europea ha permesso alla Repubblica islamica di violare più volte la sua sovranità, imponendo la legge islamica sul territorio nazionale di un altro Paese

L’Abdorrahman Boroumand Center for Human Rights, da lei fondato insieme a sua sorella Roya, ha realizzato l’Omid Memorial, un gigantesco memoriale digitale che ricostruisce le vicende biografiche e giudiziarie delle vittime della violenza di Stato del regime iraniano, fuori e dentro l’Iran. Quale funzione ha questo memoriale?

Il memoriale ha due funzioni, una storiografica e una preventiva. Si vuole ripristinare la dignità delle vittime, riconoscere collettivamente il male che hanno subito, cercando anche di aiutare i loro cari, che sono sopravvissuti. La comunità, la collettività si assumono la loro responsabilità di fronte ai crimini di Stato. L’altra funzione è quella di apprendere dalla storia. Nel memoriale “Omid” non ci sono solo nomi, ciascuna storia è una biografia che viene collocata nel suo contesto giuridico e storico. Con la possibilità di una contro-narrativa, ovvero ascoltare anche la versione delle vittime che non sono state ascoltate. Questo permetterà in futuro agli storici, ai giuristi, ma anche agli iraniani, ai cittadini di tutto il mondo di riflettere sulla storia della violenza di Stato in Iran e considerare e pianificare riforme per evitare che questa violenza si ripeta in altre forme in futuro.

Lei crede che ci possa essere un futuro diverso per l’Iran?

Io ne sono abbastanza sicura. Questo regime è già stato vinto dal punto di vista ideologico. Ed è per questo che quando vogliono attaccare l’opposizione non lo fanno più in nome dei principi della Repubblica islamica, ma in nome della stessa opposizione. Questa è già di per sé un’ammissione di fallimento. Il regime non ha più i mezzi ideologici per difendersi. Deve trasformarsi in un falso oppositore alla dittatura per attaccare la vera opposizione. In questo momento i leader del regime sono seduti su pozzi petroliferi, hanno a disposizione mercenari all’interno del Paese che pagano per uccidere. La vera domanda è: quando esisterà un progetto di futuro per il quale gli iraniani intenderanno molibitarsi massivamente, affinché la paura cambi di campo? Affinché i mercenari abbiano più paura rispetto alla gente comune e si convincano a cambiare schieramento, consapevoli che non esisterà più alcuna possibilità, per questo regime, di sopravvivere? Questa è la sfida del futuro.

Il popolo iraniano oggi è pronto per la democrazia?

Stando al testo della canzone simbolo delle proteste iraniane “Baraye” di Shervin Hajipour Baraye, direi di sì, gli iraniani sembrano pronti per la democrazia. La canzone parla proprio di democrazia liberale. Ma ha visto anche lei come hanno votato gli americani dopo due secoli di democrazia…L’essere umano oscilla tra il suo desiderio di certezza e il suo desiderio di libertà. Allora dobbiamo rendere la libertà sufficientemente attraente. È necessario formare e rafforzare una cultura che valorizzi i diritti dei cittadini, lo Stato di diritto, il regno del diritto, affinché questo sentimento di insicurezza culturale, politica, sociale che spinge le persone verso il populismo sia sconfitto dallo Stato di diritto. 

Nella lectio magistralis all’Università di Parma ha pronunciato parole molto forti e importanti. “Mentire è un atto di auto-reclusione, mentre la verità possiede una potente virtù emancipatrice. Quando abbiamo deciso di opporci al male, la verità è stata la nostra unica arma”. Lei crede che la verità possa giocare un ruolo nella tutela dei principi democratici?

I totalitarismi possono vivere, sopravvivere e prosperare solo grazie alla menzogna. Ora va molto di moda l’espressione “realtà alternativa”. È invocando la realtà alternativa che i populisti e gli autocrati riescono a prendere il potere. È assolutamente indispensabile mettere in atto uno sforzo continuo per decostruire questa realtà alternativa con la verità. Al fine di evitare che questa realtà alternativa diventi il solo discorso nello spazio pubblico. È solo attraverso la verità che riusciamo e riusciremo a proteggere i diritti. 

di Nadia Boffa su Huffpost.

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