Anno: XXVI - Numero 82    
Giovedì 24 Aprile 2025 ore 13:45
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L’islam radicale non si integra. Così lo combatterò

Anna Cisint ex sindaca di Monfalcone e attuale eurodeputata leghista prende le deleghe comunali al contrasto all’integralismo.

L’islam radicale non si integra. Così lo combatterò

“Gli immigrati hanno distrutto il tessuto economico, introdotto l’estorsione, imposto il velo integrale. Da noi è pieno di potenziali Saman Abbas. Quello che c’è qui presto sarà ovunque”

Ad Anna Cisint non importa se qualcuno la chiama la sceriffa di Monfalcone. “Ho le spalle grosse, e ho la scorta anche per questo, perché me ne dicono e fanno di tutti i colori…”, sorride. Il sindaco neoeletto Luca Fasan (Lega) le ha assegnato la delega al contrasto della radicalizzazione islamica. È la prima volta in Italia. Lei prima di iniziare questa chiacchierata chiede al cronista: “Ma lei ha idee preconcette, o vuole davvero capire cosa succede qui? Guardi che a Monfalcone accade quello che tra poco accadrà in tutta Italia”. La rassicuriamo: vogliamo davvero comprendere come sia possibile che una città un tempo rossa – Monfalcone è la città dei cantieri in Friuli Venezia Giulia – dopo essere passata a destra, ormai dieci anni fa, nel 2025 deleghi un consigliere comunale a combattere l’Islam, sebbene quello nelle forme più radicali. Sembra l’anno zero dell’integrazione, in una cittadina che ha 30mila abitanti, ma quasi 10mila sono bengalesi e indiani, i nuovi operai dei cantieri navali.

Cisint e Monfalcone sono intrecciate: oggi lei è europarlamentare della Lega, ma è stata la sindaca che nel 2016 strappò la città al Pd. Pierluigi Bersani allora disse: “Non ci dormo la notte”. Dopo aver fatto il primo cittadino per nove anni, alle ultime amministrative l’eurodeputata si è candidata come consigliere comunale nella lista della Lega. In più ha dato il suo nome a una lista civica. Risultato: 30 per cento la Lega, 25 per cento alla lista Cisint per Monfalcone. “In premessa bisogna dire che è arrivato il momento per Fincantieri di invertire il modello produttivo. Parlo da figlia di un operaio che faceva il saldatore e costruiva le navi. Siamo tutti ben contenti, e io per prima, che Fincantieri abbia tante commesse, e che riesca a crescere. Ma ora deve collaborare perché questo modello produttivo non fa bene a nessuno, in primis a chi arriva e viene trattato come uno schiavo”.

Ad Anna Cisint non importa se qualcuno la chiama la sceriffa di Monfalcone. “Ho le spalle grosse, e ho la scorta anche per questo, perché me ne dicono e fanno di tutti i colori…”, sorride. Il sindaco neoeletto Luca Fasan (Lega) le ha assegnato la delega al contrasto della radicalizzazione islamica. È la prima volta in Italia. Lei prima di iniziare questa chiacchierata chiede al cronista: “Ma lei ha idee preconcette, o vuole davvero capire cosa succede qui? Guardi che a Monfalcone accade quello che tra poco accadrà in tutta Italia”. La rassicuriamo: vogliamo davvero comprendere come sia possibile che una città un tempo rossa – Monfalcone è la città dei cantieri in Friuli Venezia Giulia – dopo essere passata a destra, ormai dieci anni fa, nel 2025 deleghi un consigliere comunale a combattere l’Islam, sebbene quello nelle forme più radicali. Sembra l’anno zero dell’integrazione, in una cittadina che ha 30mila abitanti, ma quasi 10mila sono bengalesi e indiani, i nuovi operai dei cantieri navali. 

Cisint e Monfalcone sono intrecciate: oggi lei è europarlamentare della Lega, ma è stata la sindaca che nel 2016 strappò la città al Pd. Pierluigi Bersani allora disse: “Non ci dormo la notte”. Dopo aver fatto il primo cittadino per nove anni, alle ultime amministrative l’eurodeputata si è candidata come consigliere comunale nella lista della Lega. In più ha dato il suo nome a una lista civica. Risultato: 30 per cento la Lega, 25 per cento alla lista Cisint per Monfalcone. “In premessa bisogna dire che è arrivato il momento per Fincantieri di invertire il modello produttivo. Parlo da figlia di un operaio che faceva il saldatore e costruiva le navi. Siamo tutti ben contenti, e io per prima, che Fincantieri abbia tante commesse, e che riesca a crescere. Ma ora deve collaborare perché questo modello produttivo non fa bene a nessuno, in primis a chi arriva e viene trattato come uno schiavo”. 

A cosa si riferisce? 

Parliamo di dati concreti. Gli appalti dei cantieri vengono assegnati anche a 28-30 euro l’ora a lavoratore. Ma il sistema dei subappalti fa sì che in mano all’operaio ne vadano molti meno, perché c’è una concorrenza al ribasso. E poi c’è il fatto che i cicli produttivi durano molto di più di quelli preventivati. Per cui se devi pagare 50 ore invece che 30, ecco che la paga si abbassa. Noi tutti abbiamo amato Fincantieri, ci hanno lavorato i nostri padri. Ma dal 2005, da quando viene adottato questo modello produttivo per scelta dell’allora amministratore delegato, la fabbrica ha contribuito a sconquassare il tessuto sociale. Questo modo di lavorare ha generato un’enclave di islamici che hanno costruito una città nella città. Perché tutto dipende dal sistema produttivo. Ora chiediamo a Fincantieri di collaborare. 

In che modo pensa che possa avvenire? 

Vogliamo che l’azienda investa nella stabilizzazione dei lavoratori, nella formazione e nella tecnologia, nei servizi. Abbiamo già chiesto che per i saldatori si crei una società consortile partecipata dall’azienda. Non può prevalere la logica del massimo ribasso. 

Perché dice che tutto dipende dall’economia? 

Le faccio qualche esempio: a Monfalcone c’è anche un problema di estorsioni. Gente che paga il pizzo ai connazionali per poter lavorare. L’estorsore dice: “Tu lavori se restituisci una parte dello stipendio, altrimenti non lavori più”. Una persona è venuta da me quando ero sindaco e ha denunciato, aveva versato 20mila euro in diversi anni. Ma poi è stato emarginato. Se vuole faccio altri esempi. Prendiamo le case. In città abbiamo 290 foresterie registrate, un numero enorme. Perché a parte i 9mila immigrati residenti, ce ne sono altri 3mila che non risultano, che sono in nero, e che trovano comunque lavoro nei cantieri. Questi o dormono dagli amici oppure nelle foresterie delle ditte in subappalto. Capito? Ma così è una guerra tra poveri. E non si può fare programmazione sociosanitaria. Lo dico io che ho fatto costruire cinque scuole per educare i figli delle persone che venivano a lavorare. 

Perché dice che si crea una città nella città? 

Perché in queste condizioni, gli immigrati tendono a stare per i fatti loro. Vogliono vivere come facevano a casa loro. E guardi che io sono tutto il contrario di un razzista: ho mandato mio figlio al collegio internazionale. Un altro lavora a Singapore. Qui il razzismo non c’entra niente. In condizioni di estrema precarietà e con un modello sociale come quello di chi viene qui, il risultato è l’autosegregazione. 

Lei fa riferimento al modello sociale. Ma non sarebbe meglio dialogare?

Ci ho provato. Ma nelle famiglie della stragrande maggioranza di migranti, quelli che sono radicalizzati, lavora solo il capofamiglia, uomo. E le donne stanno a casa. Quasi segregate. Hanno Isee molto bassi e assorbono il 95 per cento del welfare cittadino. Pensi che Monfalcone con tutto il lavoro che ha è la terza città più povera del Friuli-Venezia Giulia. Di fatto si creano due città: la loro e la nostra. La conseguenza è che non rispettano le regole di tutti. 

Ma se questa è la situazione non sarebbe meglio integrarli? 

È inutile che parliamo di integrazione. Con questi presupposti non si riesce. Le faccio l’esempio delle moschee. Se siamo tutti in democrazia bisogna rispettare tutti le stesse leggi, comprese quelle che riguardano dove possono sorgere gli edifici di culto. Nel caso delle moschee sono state raccolte di firme di protesta. Non rispettavano le regole urbanistiche. E il Consiglio di Stato mi ha dato ragione. 

Però andare in moschea non è sinonimo di radicalizzazione. È libertà di culto. O sbaglio?

Cerchiamo di capirci: qui nessuno impedisce a nessuno di osservare la sua religione. Ma bisogna rispettare le regole che rispettano tutti. Perché uno che apre un negozio deve rispettare la legge e un centro islamico no? Quando arrivano le persone a Monfalcone firmano un accordo di integrazione in cui sono richiamate le norme costituzionali. È un accordo fatto bene, ma non viene applicato. Prevede l’apprendimento della lingua e non la imparano. Il rispetto delle differenze di genere, e non se ne parla. Io ho salvato personalmente delle ragazze…

Erano vittime di abusi? 

Una ragazza di 15 anni è stata portata in Bangladesh e le hanno “offerto” il marito. Quando è tornata ha provato a fuggire. È scappata da scuola e si è salvata solo grazie agli insegnanti. Qui ci sono tante Samman Abbas mancate. 

Ma torno all’integrazione. Non è meglio provare a dialogare con loro? 

Io ho tentato, ho chiamato molte volte l’imam in Comune. Ascolto ma non voglio essere presa in giro. Non si può accettare il ribaltamento del tessuto sociale. La radicalizzazione non porta beneficio a nessuno.

Lei ora ha questa delega, ma le leggi, come lei stessa ricorda, ci sono già. A cosa servirà? 

Io combatto la radicalizzazione e verifico quello che succede. I controlli spetteranno ai vigili urbani. Nel caso delle moschee il Consiglio di Stato mi ha dato ragione. Bisogna rispettare il piano regolatore. Per il velo integrale, invece, chiederemo la modifica di una norma nazionale. È una legge del 1975 che vieta l’uso del casco integrale “salvo giustificati motivi”. Era stata fatta contro il terrorismo. Ora è l’appiglio giuridico per cui molti continuano a usare il velo. E poi mi metterò a disposizione delle donne e delle bambine. Stiamo subendo una islamizzazione integralista. Giorni fa ero a Singapore, e in sei giorni ho visto tre donne coperte. A Monfalcone il 75 per cento ha il velo integrale. Vengono registrati anche contratti di matrimonio con poligamia. È una vergogna.

di Alfonso Raimo su HuffPost

 

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