Non esistono indifendibili: Anche un reo confesso ha diritto al giusto processo
Il processo a Filippo Turetta riapre il dibattito sul ruolo dei difensori: ne parliamo con Aurora Matteucci, già presidente della Camera Penale di Livorno.
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Il processo a carico di Filippo Turetta, reso confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, ha riaperto ormai da tempo il dibattito del ruolo dell’avvocato. Per alcuni, gli imputati come Turetta non meriterebbero la difesa ma, invece, come ci dice l’avvocato Aurora Matteucci, già presidente della Camera Penale di Livorno, «si tratta di un diritto inviolabile».
Perché anche Filippo Turetta ha diritto ad essere difeso?
Partiamo dall’assunto che non esistono gli indifendibili. Detto questo, la sua è una delle domande più difficili del nostro tempo ma a cui abbiamo il dovere di rispondere. Nasce in un periodo storico in cui il processo ormai è stato prepotentemente delegittimato dalla grancassa mediatica che esprime istanze di bulimia repressiva, oramai divenuta pensiero dominante. Tuttavia, non possiamo esimerci dallo spiegare alle persone che chiunque in questo Paese ha diritto a una difesa, prima di tutto perché lo prevede l’articolo 24 della Costituzione, per cui la difesa è uno dei diritti inviolabili. Persino un reo confesso come Turetta ha diritto a un processo giusto e ha diritto quindi affinché tutte le sfumature di questa vicenda drammatica vengano portate all’attenzione del giudice.
In questi casi poi gli avvocati vengono accusati e stigmatizzati quando chiedono, secondo il codice di rito, di non prevedere le aggravanti, di non condannare il loro assistito alla pena massima, di concedergli le attenuanti. Appare ingiusto e irrispettoso.
A parer mio questi sono gli effetti negativi del processo penale simbolico, perché il processo penale, anziché essere il luogo dell’accertamento di un fatto storico determinato, è diventato il simbolo di tutti i fatti che riguardano – per così dire – una questione politica o etica, per esempio la violenza maschile contro le donne. È come se un imputato dovesse rispondere di tutte quante le violenze maschili contro le donne. Ciò rappresenta la resa della politica rispetto a determinati temi, per cui si appalta sul processo penale la funzione di risolvere questioni che prima ancora dovrebbero trovare una soluzione culturale e preventiva.
Già in caso di omicidio il diritto di difesa spesso è vilipeso. Ma per i casi di femminicidio lo è ancora di più.
Sì, è assolutamente così in questo momento. Purtroppo, addirittura, c’è chi sostiene che i reati di violenza di genere debbano essere trattati esattamente come quelli di criminalità organizzata mafiosa, che è il settore tipico del doppio binario. Questo accostamento tra violenza di genere e criminalità organizzata ha reso ragione di tutta una serie di norme che nel tempo hanno davvero contribuito a costruire una sorta di nuovo doppio binario. Ma in realtà più in generale oggi si assiste a una proiezione vittimocentrica della giustizia penale per cui si costruiscono doppi, tripli, quadrupli binari in relazione alla tipologia di vittima che si intende tutelare. Basti pensare all’omicidio stradale o a tutta una serie di introduzioni normative che vanno nella direzione di irrigidire le soluzioni del processo, rendere più difficile la difesa degli imputati in base alla tipologia di vittima. Ormai anche la politica si è assestata su un approccio vittimocentrico quando si tratta di legiferare in materia di giustizia criminale.
Tanto è vero che al Senato è in discussione un disegno di legge costituzionale che vuole inserire la vittima in Costituzione.
Il problema non è tanto andare contro le vittime reali ovviamente. Quello che invece molti penalisti criticano è il paradigma vittimario che attribuisce una fede privilegiata alla vittima in quanto tale, in un contesto – quello penale liberale – che invece è reocentrico. Quindi le vittime in realtà hanno molta più voce degli imputati che vengono già considerati condannati prima ancora che ci sia una sentenza definitiva nel nostro Paese. Come scrive bene il professore Daniele Giglioli in ‘Critica della Vittima’ (figure nottetempo) “La vittima è l’eroe del nostro tempo” a cui viene tributata una voce privilegiata. Inoltre sul piano del diritto sostanziale si sono create nuove fattispecie criminose per tipologia di vittima e spesso noi avvocati abbiamo le armi spuntate per difendere imputati di certe categorie di reato, in modo particolare quando difendiamo imputati accusati di violenza contro le donne.
Turetta è stato condannato all’ergastolo ma per alcuni avrebbe meritato la pena di morte.
Ormai sui social, e non solo, si leggono commenti che hanno travalicato il sopportabile. Poi ci sono quelli che vorrebbero buttare la chiave e quelli per cui l’ergastolo è l’unica forma di risarcimento collettivo per questa orrenda storia.
Secondo lei l’ergastolo è una pena esagerata?
Tendenzialmente per il tipo di contestazioni mosse a Turetta l’ergastolo è previsto. In generale, sfortunatamente ancora oggi esso è comminabile in quanto la Consulta lo ha ritenuto compatibile con la Costituzione soltanto se non corrisponde ad un fine pena mai. C’è da dire che l’ergastolo nei confronti di un ragazzo di 22 anni significa abdicare completamente all’idea della finalità rieducativa della pena e all’idea che questa persona possa poi essere restituita alla società emendato.
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