"Con la riforma Cartabia si chiude pagina buia. Ora via i magistrati dai ministeri"
Intervista al presidente delle Camere penali Caiazza
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Il suo secondo biennio da presidente dell’Unione camere penali italiane è appena iniziato e Gian Domenico Caiazza – confermato per acclamazione leader degli avvocati penalisti italiani – ha chiare quali dovranno essere le battaglie dell’avvocatura nel prossimo futuro. Battaglie che non saranno certamente condivise da tutti, ma che – dice ad Huffpost – ritiene indispensabili per cancellare “lo squilibrio tra poteri dello stato”. E così il nuovo biennio da numero uno delle camere penali inizia con tre proposte di legge d’iniziativa popolare, tutte indirizzate alle toghe: la prima è volta a togliere i magistrati fuori ruolo dai ministeri, la seconda a cambiare le regole per la valutazione professionale delle toghe e la terza a riformare i consigli giudiziari, organi istituiti in ogni distretto di corte d’Appello, che hanno come compito principale quello di valutare l’operato dei singoli magistrati. Portata a casa la riforma del processo penale – che, ci dice, “non è la nostra riforma ma ci fa uscire da quella che è forse la pagina più buia per la giustizia nel nostro paese – ritiene urgente procedere con quella dell’ordinamento giudiziario. Ma considera insufficienti le proposte che sono arrivate sul tavolo della ministra Marta Cartabia. Il numero uno dei penalisti italiani promuove poi il disegno di legge sulla presunzione d’innocenza, che dovrebbe porre paletti alle inchieste show, e sulle carceri dice: “Riprendiamo il lavoro formidabile fatto durante gli stati generali dell’esecuzione penale”.
Presidente, durante il congresso delle camere penali ha lanciato tre proposte di legge d’iniziativa popolare. La prima punta il dito contro i magistrati fuori ruolo che lavorano nei dicasteri. Perché non le stanno bene le toghe nei ministeri?
Vede, il problema principale che affligge questo Paese è lo squilibrio tra poteri dello stato. Al di là degli aspetti tecnici, una delle cause più eclatanti sta nel fatto, unico al mondo, che ci sono centinaia di magistrati che vengono messi fuori ruolo e ottengono incarichi, anche apicali, nell’esecutivo. Nei dicasteri, in quello della Giustizia in particolare.
Qualcuno potrebbe obiettare che se i magistrati si trovano lì è perché hanno delle competenze tecniche che in quel momento servono al ministero.
È una sciocchezza. Non c’entrano niente le competenze. Qui non parliamo di incarichi di consulenza. Se quelli andassero ai magistrati non avremmo nessuna obiezione. Spesso le toghe vengono messe in posti per cui non possono avere la competenza, pensiamo agli uffici del personale o, per altri aspetti, al Dap. Siamo sicuri che un magistrato, magari proprio un pm, debba essere sistematicamente a capo dell’amministrazione penitenziaria?
Quest’ultimo è un tema che pongono anche le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti. Ma passiamo alla vostra seconda proposta: riguarda la valutazione dei magistrati. Cosa c’è da cambiare?
Il 99% delle valutazioni professionali ha esito positivo e questo finisce per essere una forma di deresponsabilizzazione. Noi vogliamo che si metta fine a questo automatismo e che, nelle valutazioni, si tenga conto dei risultati negativi eventualmente collezionati da un magistrato. Non mi riferisco, ovviamente, a una singola sentenza riformata o a un singolo arresto non convalidato dal gip, ma suggerisco di prendere un periodo come riferimento e valutare in quel lasso di tempo l’attività del magistrato. Come Camere penali ci rendiamo conto della delicatezza della questione e siamo consapevoli del fatto che ci vorrebbero criteri ben definiti. Proprio per questo siamo pronti a ragionare con l’accademia. E con la stessa magistratura.
Chiedete poi una riforma dei consigli giudiziari, in cosa consiste?
Per certi versi è l’altra faccia della medaglia rispetto alla seconda proposta. Il consiglio giudiziario è il primo luogo dove avviene la valutazione del magistrato. Gli avvocati hanno solo la possibilità di ascoltare. Noi chiediamo che, invece, abbiano diritto di voto. La senatrice Anna Rossomando del Pd si è detta favorevole a un intervento di questo genere. Se il Parlamento giocasse d’anticipo rispetto a noi, ne saremmo solo felicissimi.
L’Anm è più volte intervenuta – anche su Huffpost – su questo punto sostenendo che dare il diritto di voto all’avvocatura metterebbe a repentaglio l’indipendenza delle toghe.
Quello dell’indipendenza è una specie di stornello tirato fuori quando qualcuno vuole incidere sul potere abnorme che la magistratura ha acquisito in questi ultimi anni.
Questa è la stagione delle riforme. Quella del processo penale è stata portata a casa. Al congresso delle camere penali la ministra Cartabia è stata accolta con un lungo applauso, eppure durante il dibattito ci sono stati alcuni interventi contrari alle modifiche legislative. Lei cosa pensa della riforma?
È naturale non essere d’accordo su tutti i punti. Del resto, è la riforma Cartabia, non la nostra riforma. Ci sono delle cose che non condividiamo, alcune su cui addirittura c’è preoccupazione, come la prescrizione processuale. E su questo punto continueremo ad alimentare il dialogo. Tuttavia, non possiamo non vedere come questa riforma rappresenti il superamento di una stagione di populismo penale, che è stato una pagina buia per la giustizia di questo Paese.
Il nuovo processo penale è legge, la riforma del civile è in dirittura d’arrivo Quali sono le urgenze del Paese in tema di giustizia?
La riforma dell’ordinamento giudiziario, innanzitutto. La ministra ha detto che arriverà entro la fine dell’anno, ma non posso nascondere una certa preoccupazione, perché le proposte della commissione Luciani sono lontane anni luce da quello che davvero servirebbe. Qualcuno pensa che ritoccando un po’ le porte girevoli e il sistema elettorale del Csm si risolva il problema della crisi della credibilità della magistratura. Bene, crederlo sarebbe un errore fatale, perché occore ben altro.
Durante il congresso è stato fatto ampio riferimento alla situazione delle carceri. Questo governo, principalmente grazie alla ministra Cartabia, è molto sensibile al tema. Pensiamo alla reazione avuta dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere e all’istituzione di una commissione sui penitenziari. Il lavoro da fare, da qualsiasi angolazione si guardi la materia, è tanto. Lei da dove partirebbe?
Molto è già stato fatto durante gli Stati generali dell’esecuzione penale. Due anni di lavoro straordinario che poi sono stati bruciati in pubblica piazza dal primo governo giustizialista e populista del Paese. Non c’è bisogno di inventarsi nulla di nuovo. Basta ripartire da quelle idee, e da quelle persone.
A cosa aveva portato quel lavoro?
Era focalizzato sul percorso di recupero all’interno delle carceri, quindi sul lavoro, sull’affettività, e sulle pene alternative. Da intendersi non come un modo per sottrarsi all’esecuzione della pena, ovviamente. Del resto, lo ha ricordato la ministra Cartabia, la Costituzione parla di pena e non di carcere. Ma questa impostazione aveva rischiato di essere spazzata via dalla rozzezza securitaria giustizialista.
In Parlamento è in fase di discussione in Parlamento il provvedimento sulla presunzione d’innocenza, dopo che in estate è arrivato il via libera del consiglio dei ministri. La norma dovrebbe limitare le conferenze stampa show e ribaltare un certo modo di fare informazione giudiziaria. Cosa ne pensa e cosa risponde a chi vede in quelle disposizioni un limite al diritto di cronaca?
Naturalmente siamo favorevolissimi a un provvedimento di questo tipo e lo riteniamo importante. Il diritto di cronaca non c’entra niente. Bisogna fermare l’uso spettacolare dell’attività investigativa e lo squilibrio informativo che spesso determina una “sentenza mediatica” quando parte l’indagine. Tutto ciò che contrasta questi comportamenti è un passo avanti verso la civiltà.
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