Donne e carriera forense
La parità di genere negli ordini professionali
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La questione dell’accesso della figura femminile alla professione forense emerse alla fine dell’Ottocento.
Sebbene la legge professionale n. 1938/1874 non trattasse direttamente il punto, si assistette ad un animato dibattito: nel 1904, l’Enciclopedia Giuridica Italiana, alla voce Avvocato e Procuratore, segnalò il problema.
Si trattò di una questione non solo dottrinale, tant’è che fu posta all’ordine del giorno a Napoli nel Congresso Nazionale Forense del 18-24 maggio 1913.
Tra i requisiti d’iscrizione all’albo degli avvocati, l’art. 8 della legge sopracitata richiedeva l’assenza di condanne a pena maggiore della reclusione o detenzione fino a cinque anni, né condanne comportanti l’interdizione dall’esercizio della professione, il conseguimento della laurea in Giurisprudenza, lo svolgimento della pratica forense per almeno due anni e il superamento dell’esame teorico-pratico per l’abilitazione alla professione.
Essa, dunque, non accennava al sesso, quale requisito per l’iscrizione o l’esclusione.
Tuttavia, nel corso del tempo, non mancarono casi di esclusione.
Emblematico è quello di Lidia Poët, la prima donna ad essere iscritta ad un albo di avvocati nel 1983, cancellata per annullamento a seguito di impugnativa avanzata dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Torino.
Tale decisione prese le mosse dalla natura di pubblico ufficio della professione forense.
Il ragionamento dei giudici torinesi fu corredato da taluni elementi: lessicale (nella legge professionale il termine “avvocato” non era convertito al femminile); storico (nel diritto romano, le donne non potevano esercitare la professione forense); l’argomento ex adverso (l’ammissione di esse agli uffici era prevista dalla legge, e dunque, là dove la legge taceva, non si poteva considerare l’implicita l’ammissione all’ufficio).
La Cassazione di Torino confermò la pronuncia d’appello, rintanandosi dietro la funzione sociale dell’avvocatura, nonché sostenendo il primo argomento dei giudici.
Nel corso del tempo, si giunse ad aperture calibrate: fu riconosciuto un diritto alla pratica forense relativo alla pratica procuratoria.
Al contempo, nel 1912 si ripropose la medesima situazione con il rigetto dell’iscrizione di Teresa Labriola da parte dell’Ordine di Roma.
Analogamente, la Cassazione romana argomentò negativamente sulla base di precedenti analoghi a quello torinese, secondo un’interpretazione contraria della legge n. 1938/1874.
Una svolta si ebbe con la c.d. legge Sacchi, la quale sancì la parificazione dei sessi anche in ordine ai pubblici uffici, evidenziando però eccezioni ripugnanti (il divieto per le donne di accedere alla carriera magistratuale, diplomatica e militare).
È interessante illustrare le argomentazioni adottate dalla Commissione del Senato sul progetto di legge approvato dalla Camera dei Deputati sulla capacità giuridica e professionale della donna.
Essa sottolineò il valoroso ruolo assolto dalle donne durante la seconda guerra mondiale; precisò poi che la “missione domestica” non sarebbe stata ostacolata dall’esercizio della professione.
Nell’ottica della Commissione, la regola doveva essere capovolta, in quanto la discriminazione nell’accesso alle professioni si sarebbe tradotta in un atto di ingiustizia sociale.
La Commissione, altresì, sosteneva che l’ingresso delle donne nella classe avrebbe migliorato il costume forense: si vanificarono così le aspettative del Presidente, secondo il quale tale ingresso avrebbe dovuto avvenire al termine della riforma professionale con l’auspicio di elevare il livello morale e tecnico degli iscritti agli albi.
Tale riconoscimento fu mantenuto nel periodo fascista, tant’è che nel commento in nota all’art. 12 della legge n. 453/1926, collocato nel Titolo II che menzionava i requisiti per l’iscrizione nell’albo degli avvocati, fu riportato quanto segue: “E’ superfluo dire che dopo la legge 17 luglio 1919, n. 1176 e il regolamento relativo del 4 agosto 1920, anche le donne possono essere iscritte all’albo”.
L’atteggiamento fascista verso le donne fu ambiguo: da un lato, permase l’ideale della superiorità maschile; dall’altro, si coinvolse la figura femminile in molteplici ambiti, fino a consacrare il suo ingresso nella vita pubblica, innescando così un fervore partecipativo collocato nelle sfere giovanili e più agiate.
Un aspetto fondamentale fu segnalato da “Il Giornale della Donna”: il numero delle esercenti la professione con il titolo di Avvocato era inferiore rispetto a quello delle laureate in Giurisprudenza.
D’altro canto, l’opinione pubblica considerava le donne più adatte alla collaborazione nelle riviste giuridiche o ai commenti delle pronunce magistratuali più che agli attriti tra le parti.
Allo stato attuale, la discriminazione di genere in tale contesto permane.
In via generale, essa emerge nella regolamentazione delle competizioni elettorali e delle cariche elettive nei Consigli degli Ordini professionali.
Tali organi sono stati spesso oggetto di dibattito circa la loro funzione di rappresentanza e la loro natura di enti pubblici economici.
Per un certo lasso di tempo, l’attività di rappresentanza di essi si è basata su un approccio di tipo adattivo-reattivo: gli ordini si conformavano alla realtà, intervenendo solo dopo a un processo decisionale.
Oggi, invece, essi adottano un approccio palesemente proattivo, agendo in via preventiva o contestuale al processo decisionale.
In tale modo, si “tende a influenzare l’opinione dei decisori e a orientare atteggiamenti/comportamenti di coloro che possono influenzare i primi”.
È opportuno evidenziare che tali organi, nel momento in cui partecipano alle decisioni pubbliche, non possono solo preservare la categoria professionale da essi rappresentata, dovendo invece provvedere anche alla tutela dell’interesse generale.
Come osservato di recente, i singoli iscritti hanno espresso il loro disappunto in ordine all’operato dell’ordine locale, situazione che si riversa sull’efficacia della rappresentanza a livello nazionale, dalla quale sono scaturite due rilevanti conseguenze.
Da una parte, i giovani membri lamentano una scarsa rappresentanza da parte dell’ordine locale, mirante a tutelare gli interessi di una sola parte della categoria.
Dall’altra, si ravvisa una differenza di genere: le professioniste, ormai equiparabili ai professionisti uomini sul piano quantitativo, risultano meno presenti (o in certi casi addirittura assenti).
A tale proposito, si segnala una vicenda di notevole spessore, sulla quale si è pronunciata il T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, con Ordinanza del 12 novembre 2020, n. 6927.
Il caso di specie riguardava l’impugnazione, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 51 Cost., del Regolamento elettorale, per il rinnovo dei vertici degli organi dell’Ordine dei Commercialisti, in virtù dell’assenza di una norma in materia di parità di genere.
Il T.A.R. attribuisce al legislatore il compito di elaborare una normativa a garanzia dell’eguaglianza tra uomo e donna, escludendo così che la questione possa essere rimessa al vaglio della Corte costituzionale.
Quest’ultima ipotesi “presupporrebbe la richiesta alla Consulta di un intervento di tipo additivo, non consentito a fronte della presenza di plurime soluzioni adeguatrici, la cui scelta appartiene alla discrezionalità del legislatore”.
Quanto statuito dal giudice amministrativo – a giudizio di chi scrive – sminuisce la funzione della Corte, la quale non intende sostituirsi al legislatore, quanto invece incoraggiarlo ai fini della tutela dei diritti e dei valori dell’ordinamento.
Rigettare l’azione della Corte costituzionale non risolverebbe il delicato problema della sotto-rappresentazione femminile ai vertici degli organi dell’Ordine dei commercialisti.
Occorre ricordare che la Costituzione persegue lo scopo di realizzare la parità di genere; si giustifica, dunque, il necessario coinvolgimento Giudice delle Leggi, volta ad educare e sensibilizzare su tali questioni.
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