Anno: XXV - Numero 196    
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Le riforme più odiate dai magistrati

Senza la legge del 2012 e il reato temuto dai sindaci, meno potere alle toghe (costrette pure a lavorare di più).

Le riforme più odiate dai magistrati

«Si potrebbe ipotizzare un intervento per renderla più coerente con il dettato costituzionale, ma non certo l’abrogazione dell’intera legge», ha precisato Delmastro. La mano tesa da parte di Fratelli d’Italia agli alleati sulla Severino è un segnale molto importante in un periodo come questo, caratterizzato invece da grandi fibrillazioni all’interno della compagine governativa.

La riforma della disciplina introdotta dalla ex guardasigilli è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia. Gli azzurri, infatti, caduto il governo Berlusconi, votarono questa legge nel 2012 sotto la spinta dello spread, delle indagini sui rimborsi elettorali nelle regioni, che poi si riveleranno un mezzo flop, e della violentissima campagna mediatica ben rappresentata dai libri del duo Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che di fatto contribuirono a cambiare il corso della politica del Paese, spalancando le porte al M5S di Beppe Grillo.

Come ricorda allora la deputata di FI Annarita Patriarca, componente dell’ufficio di presidenza di Montecitorio e componente della commissione Giustizia, abolire la legge Severino significherebbe superare «l’ubriacatura giustizialista e populista che tanti danni ha arrecato al nostro Paese». E la legge Severino «è un abominio che fa inorridire il giurista e brucia biblioteche», sottolinea Tommaso Calderone, che nella stessa commissione è il capogruppo degli azzurri, «un cittadino è innocente fino alla sentenza definitiva; quindi, perché non può esserlo un politico? Numerosi amministratori sono stati ingiustamente sospesi, dopo la sentenza di primo grado, per poi essere assolti nei successivi gradi del giudizio. Nelle more vi è stato un vulnus alla democrazia: intere comunità sono rimaste magari senza il sindaco democraticamente eletto”, aggiunge Calderone.

La legge Severino in questi anni è stata sempre difesa dalla magistratura associata, o almeno dalla parte più movimentista dell’Anm. La stessa che ultimamente è salita sulle barricate per difendere anche l’abuso d’ufficio, reato “prezzemolo” buono per tutte le indagini. Appellandosi spesso, ma impropriamente, alle Convenzioni internazionali, l’abolizione di questa fattispecie penale, secondo l’Anm, sarà un vulnus nel contrasto alla corruzione, dimenticandosi però di ricordare che tutti i reati contro la Pa hanno ormai da tempo pene elevatissime che li rendono sostanzialmente imprescrittibili.

Ed è anche a proposito della riforma della prescrizione, che aspetta solo il sì definitivo del Senato dopo il voto della Camera, che l’Anm è già pronta allo scontro. Il testo, primo firmatario il deputato forziata Pietro Pittalis, azzera la riforma Cartabia, che aveva introdotto l’improcedibilità, istituto “di compromesso” che avrebbe lasciato migliaia di persone con un carico pendente a vita sulla spalle. La critica che viene mossa dalle toghe è che questa riforma costringerà ora le Corti d’appello a riconteggiare i tempi di prescrizione per tutti i processi pendenti in secondo grado. Nulla di insuperabile, d’altra parte, considerando le migliaia di assunti nell’ufficio per il processo, e per i quali si prospetta una stabilizzazione, e le centinaia di magistrati che a breve entreranno in servizio e –per la prima volta nella storia, come ricorda con soddisfazione il guardasigilli Carlo Nordio – porteranno a pieno organico gli uffici giudiziari del Paese.

Dall’attuale dirigenza dell’Anm, ormai in scadenza e il cui rinnovo è previsto per il prossimo mese di gennaio, ad oggi, sul punto, è arrivato come detto sempre un no, accompagnato da una strenua difesa dello status quo. Nessuno che abbia fornito una spiegazione su come mai uffici giudiziari contigui, con organici sostanzialmente simili e con un bacino di riferimento pressoché identico, abbiano spesso tempi di definizione dei procedimenti molto diversi fra loro. La domanda, per la cronaca, se la pose, senza appunto avere risposta, già dieci anni fa l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd).

Se gli uffici giudiziari sono ben organizzati, è ormai assodato, i reati non si prescrivono e i processi si celebrano nei tempi previsti. Non va mai dimenticato, infine, che la stragrande maggioranza delle prescrizioni maturano nella fase delle indagini preliminari, in cui il pm è il dominus assoluto e la difesa non “tocca palla”. Forse un riflessione su questi aspetti sarebbe opportuna.

Ma soprattutto, è il caso di riflettere sul fatto che le tre riforme “sulla brace” dell’attualità politica – abuso d’ufficio, prescrizione e legge Severino – sono accomunate dall’effetto di ridurre il potere della magistratura requirente e, nel caso delle ultime due, di imporle appunto uno sforzo professionale più intenso, sebbene non insostenibile. Il discorso vale non solo nel caso della riforma sui termini di estinzione dei reati – che pure, prima del via libera a Montecitorio, aveva suscitato l’allarmata lettera a Nordio dei presidenti di tutte e 26 le Corti d’appello italiane – ma anche di quella che sopprime l’articolo 323 del codice penale: senza l’abuso d’ufficio, trasformato negli ultimi anni in una sorta di “reato a strascico”, diventa impossibile aprire indagini a carico di un politico e poi aspettare mesi, se non addirittura anni, per vedere se emergono elementi e addebiti più significativi. Le Procure saranno costrette a impegnarsi nella ricerca di elementi più solidi, per poter aprire e proseguire un’inchiesta. Più lavoro, ma anche meno potere di distruggere carriere politiche.

Da Il Dubbio

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