Mi batto in prima linea: dai 5 Sì verrà la rivoluzione della giustizia
Intervista all’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio «Mi son detto: basta prediche», racconta il presidente del Comitato per il Sì. «Voglio mettermi in gioco contro l’Anm conservatrice. Vi spiego la chiave per smontare gli Altolà ai referendum»
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Ci vuole un bel coraggio. E Carlo Nordio ne ha. Ne ha sempre avuto. Da magistrato, per le scelte controcorrente che, quando necessario, ha compiuto dall’ufficio di Procura. E come opinion leader della giustizia, capace ora di trasformarsi in leader tour court, della campagna referendaria per la precisione.
Perché l’ex procuratore aggiunto di Venezia ha accettato di dismettere gli affilatissimi ma meno scomodi strumenti degli editoriali, della critica su magistratura e regole del sistema, e si è messo in gioco come presidente del comitato “Sì per la libertà, Sì per la giustizia”, anima della battaglia per i 5 quesiti promossi da Partito radicale e Lega. Che poi, la battaglia è innanzitutto per il quorum, trasformato in una mission ai limiti dell’impossibile anche dalla data scelta dal governo per il voto, domenica prossima 12 giugno: un giorno solo, festivo, in un’estate sopraggiunta con anticipo e con ferocia.
«Era naturale», dice lui, smetterla con le «prediche inutili — ovvero i suoi seguitissimi interventi sul Messaggero — e che mi esponessi in prima persona». Nordio ha un’altra forza: il realismo misto alla tenacia di chi guarda lontano, oltre le difficoltà e oltre dunque «la scarsa pubblicità data a questo referendum» che «può rendere difficile il raggiungimento del quorum»: in ogni caso, dice il magistrato, «sarebbe un errore, e una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti». Sarà dunque importante «la conta finale dei Sì e dei No». E sia che arrivi la vittoria piena, con l’abrogazione delle norme sottoposte agli elettori, sia che si ottenga comunque una larga partecipazione, Nordio ritiene che se ne dovrà ricavare «un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale».
Lei da anni è tra le voci critiche più ascoltate nel mondo della giustizia. Ma c’è un bel salto, nel passare dal contrappunto anche spietato nei confronti, per esempio, della magistratura associata, a una sfida in prima linea. Perché sul referendum ha voluto mettersi personalmente in gioco?
Perché da 25 anni sostengo come l’introduzione del codice Vassalli, che voleva allinearci al sistema accusatorio garantista, anglosassone, liberale, sostituendo il codice Rocco, inquisitorio e fascista, avrebbe dovuto integrarsi con tutte le caratteristiche che lo fanno funzionare: discrezionalità dell’azione penale, separazione delle carriere, responsabilità dei pm, e via dicendo. Ma la nostra Anm è decisamente conservatrice, e non ha mai risposto a queste obiezioni di ordine tecnico. Quindi era naturale che concludessi queste prediche inutili esponendomi in prima persona, con l’avvertimento che non vi è alcun sottinteso politico. Io non sono iscritto a nessun partito e non mi candiderò mai a nessun tipo di elezioni.
Il principale pregio di questi 5 referendum è nel “trauma” che infliggono ad alcune certezze consolidate della nostra giustizia? La si può vedere come una batteria di colpi diversificata e chirurgica, che non si concentra su un unico snodo critico ma colpisce il sistema su aspetti diversi?
Sì, il significato del referendum va ben oltre il contenuto dei singoli quesiti. In realtà si tratta di un appello al popolo, se sia soddisfatto o meno di questa giustizia. Una sua vittoria, o anche solo una larga partecipazione, sarebbe un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale.
L’altro grande merito dell’iniziativa referendaria è coinvolgere finalmente i cittadini nelle scelte sulla giustizia in una forma completamente diversa dall’assembramento dei tifosi dei pm all’epoca di tangentopoli.
Sì, anche se la disaffezione crescente dei cittadini alle urne in occasione delle elezioni politiche e amministrative, sommata alla scarsa pubblicità data a questo referendum, può rendere difficile il raggiungimento del quorum.Ma sarebbe un errore, e anche una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti. Chi non vota in realtà si affida alla scelta dei votanti, e quindi sarà importante la conta finale dei Sì e dei No.
Come si risponde alla critica sul quesito relativo alla legge Severino, secondo cui l’abrogazione tout court consentirebbe a persone condannate per mafia, una volta scontata la pena, di candidarsi per cariche locali?
Si risponde che la legge Severino prevede che un sindaco possa esser sospeso dalla carica, cioè rimosso, dopo una sentenza di condanna di primo grado. Questo contrasta con la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione, ma soprattutto contrasta con il buon senso, perché gran parte di queste sentenze vengono poi annullate in Appello o in Cassazione, e quindi quella rimozione si è rivelata illegittima e iniqua. Ed è un danno irreparabile recato non solo all’amministratore revocato, ma ai cittadini che gli avevano dato fiducia.
E cosa si può invece obiettare a chi ritiene che una vittoria del Sì al quesito sulla custodia cautelare renderebbe impossibile adottare misure nei confronti delle persone indagate per reati come lo stalking?
Si risponde che il sistema della custodia cautelare va visto nella sua globalità, e di essa si abusa, e spesso se ne fa un uso strumentale per indurre l’imputato a confessare e collaborare. Ma il paradosso più lacerante è che da noi è tanto facile entrare in prigione prima del processo, da presunto innocente, quanto è facile uscirne dopo la condanna, da colpevole conclamato. Il referendum mira a limitare questi abusi, anche se, essendo abrogativo, non può introdurre soluzioni nuove, e la vittoria del Sì imporrebbe qualche correttivo: ad esempio nel caso dello stalking, evitando il carcere ma imponendo misure preventive. Ma in prospettiva la riforma più importante sarebbe quella di devolvere la competenza ad emettere l’ordinanza di custodia cautelare a un organo collegiale, distante anche topograficamente dal pm che ne ha fatto la richiesta. Penso a una sorta di chambre d’accusation presso la Corte d’Appello, sul tipo di quella francese.
Si dice che separare le funzioni in modo drastico non basterebbe a stroncare le commistioni fra magistratura giudicante e requirente. E che la permanenza sotto il controllo di un unico Csm farebbe persistere uno “scambio di convenienze” fra magistrati dell’accusa e giudici. È così? O invece lo stop ai passaggi trasferirebbe comunque una certa idea di divaricazione, nella prospettiva dei magistrati, in modo da ridurre almeno in parte quell’eccessiva contiguità?
La vittoria del Sì sarebbe vincolante per il legislatore verso la piena attuazione del sistema accusatorio anglosassone, dove le carriere sono separate. Basterebbe questo per chiudere la discussione, ma voglio aggiungere un particolare. Con il sistema attuale, i pm, cioè gli accusatori, che portano gli imputati a processo, poi si trovano a braccetto nelle correnti di appartenenza, dove si mercanteggiano le cariche, come si è visto nello scandalo Palamara. Non solo. I pm danno i voti ai giudici. Se gli imputati sapessero che i loro giudici sono poi valutati dai loro accusatori, non sarebbero tanto sereni. Per fortuna non lo sanno.
Nei giorni scorsi il presidente emerito della Consulta Flick ha sostenuto che in generale i referendum sono troppo tecnici, non abbastanza comprensibili per gli elettori. Cosa si può rispondere?
Che per la loro struttura abrogativa questi referendum sono in effetti incomprensibili alla lettura delle schede. Ma è sempre stato così. Quando si è votato pro o contro il divorzio o l’aborto i quesiti erano altrettanto oscuri. Ma se il cittadino si informa, poi capisce benissimo il senso della domanda. E nel nostro caso è assai semplice: se la giustizia penale attuale vi va bene così, andate pure al mare. Se non vi piace, votate sì.
Raggiungere il quorum non sarà facile. Sulla scarsa informazione, si obietta che siamo in una fase “ingombra” di ben altre emergenze, a cominciare dalla guerra e dai suoi effetti collaterali. È davvero così? È da “frivoli” pensare alla giustizia in un contesto del genere?
No, non è da frivoli. La tempesta perfetta di pandemia, crisi economica e guerra ha messo la giustizia in secondo piano. Ma il covid si sta esaurendo, e la guerra prima o poi finirà. Purtroppo i problemi della giustizia, sedimentatisi in decenni, si aggraveranno se non si interverrà con una riforma radicale.
Un’ultima domanda, per tornare al suo rapporto col resto della magistratura: lei è probabilmente considerato un “nemico” dall’Anm. Ma quanti magistrati “invisibili” si riconoscono in lei, nelle sue critiche?
Io mi sento magistrato al cento per cento, e ho rinunciato alla più lucrosa carriera di avvocato in un avviatissimo studio di famiglia per amministrare la Giustizia. Se tornassi indietro rifarei la stessa scelta. È proprio per questa altissima concezione che ho della Magistratura che già 25 anni fa mi son ribellato quando ho visto le distorsioni correntizie, gli abusi della custodia cautelare, il protagonismo e la discesa in politica di pm che sfruttavano la notorietà acquisita con le indagini, e tante altre anomalie. I probiviri dell’Anm nel 1997 hanno persino avuto l’ardire di chiamarmi a discolparmi per le mie idee. Naturalmente li ho mandati al diavolo, e si sono ritirati con la coda tra le gambe.
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