Anno: XXV - Numero 219    
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Specializzazioni forensi: in G.U. la nuova disciplina

Con il decreto n. 163 del 1° ottobre 2020, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale solo il 12 dicembre 2020, il Ministero di Giustizia, novellando il d.m. 12 agosto 2015, n. 144, ha finalmente varato la nuova e (forse) definitiva disciplina delle specializzazioni forensi.

Specializzazioni forensi: in G.U. la nuova disciplina

Il tortuoso iter delle specializzazioni forensi

In effetti, l’iter del regolamento sulle specializzazioni forensi è stato assai tortuoso. Il decreto n. 144 del 2015 è stato reiteratamente bocciato da diverse pronunce emesse prima dal TAR Lazio e poi dal Consiglio di Stato (specialmente con la sentenza n. 5575 del 28.11.2017).

La bocciatura da parte dei giudici amministrativi era stata sostanzialmente totale. Si segnalava, in particolare, l’irragionevolezza di due delle disposizioni per così dire portanti del regolamento ministeriale, d.m. 12 agosto 2015, n. 144; si trattava, nello specifico, degli artt. 3 e 6, comma quattro, regolanti, rispettivamente, la suddivisione dei settori di specializzazione e la disciplina dei colloqui di verifica del possesso delle competenze specialistiche degli avvocati.

In effetti, per quanto riguardava la versione originaria, l’art. 3, a una (fin troppo) specifica suddivisione delle aree specialistiche del diritto civile non faceva corrispondere alcuna analoga suddivisione con riferimento al diritto penale e al diritto amministrativo. Al di là della tradizionale tripartizione fra le materie (civile, penale e amministrativo) – come aveva correttamente notato il Consiglio di Stato – sembrava difficile negare l’esistenza di settori connotati da specifiche competenze anche nel diritto penale e nel diritto amministrativo.

Allo stesso modo, appariva certamente irragionevole la regolamentazione (o sarebbe meglio dire l’omissione di regolamentazione) del colloquio di verifica del possesso delle competenze specialistiche. Pur confermando la legittimità dell’attribuzione esclusiva al CNF di tale verifica (questione aspramente discussa nel mondo forense), il Consiglio di Stato aveva rilevato l’assoluta mancanza di indicazione, seppur minimale, dei criteri di svolgimento e di valutazione del colloquio e dei requisiti dei componenti delle commissioni di valutazione.

Le “nuove” specializzazioni

La discussione successiva alle bocciature dei giudici amministrativi è stata lunga e assai complessa, visto che, solo a distanza di tre anni dalla sentenza del Consiglio di Stato, il Ministero ha approvato le modifiche al d.m. 144 del 2015, al fine di adeguarlo ai rilievi critici mossi proprio in tale pronuncia.

Senza dubbio il nuovo testo risolve l’assenza (nel testo iniziale) di indirizzi di specializzazione per il diritto penale e il diritto amministrativo. Del resto, in questo caso il Ministero aveva ottenuto, già all’inizio di questo anno, il parere positivo del Consiglio di Stato. Non è possibile, ovviamente, scendere nel dettaglio dei singoli indirizzi (alcuni certamente condivisibili, altri meno). In ogni caso, il nuovo decreto prevede che l’acquisizione della specializzazione in uno dei singoli indirizzi (sia tramite la frequenza ai corsi sia tramite la dimostrazione della comprovata esperienza) consenta l’acquisizione del titolo di specialista in diritto civile, penale o amministrativo. Come chiarisce bene il decreto, infatti, l’indirizzo di specializzazione non rileva ai fini dell’acquisizione del titolo in tali materie, posto che, come prevede il nuovo articolo 5, spetta all’avvocato specialista la facoltà di chiedere che nel proprio titolo sia specificato il proprio indirizzo (o i propri indirizzi, fino a un massimo di tre).

Il nuovo decreto cerca di porre rimedio anche alle incertezze sollevate dalle modalità di accertamento dei requisiti di attribuzione del titolo di specialista al di fuori dei percorsi formativi previsti dal medesimo decreto, ossia la “comprovata esperienza” nel settore di specializzazione. Nella nuova versione non si parla più genericamente di “colloquio sulle materie comprese nel settore di specializzazione”, ma di “colloquio per l’esposizione e la discussione dei titoli presentati e della documentazione prodotta”. La modifica appare significativa perché, di fatto, esclude che il colloquio consista in un “esame” di valutazione delle specifiche competenze del richiedente.

In realtà, la formula utilizzata appare comunque ancora ambigua; specialmente il riferimento alla “discussione” dei titoli lascia molti margini di incertezza sull’estensione e sui contenuti di tale colloquio. Non si tratta di un esame per titoli (visto che comunque il colloquio è rimasto), ma non si tratta neppure di un esame per così dire di “merito”, visto che il colloqui deve riguardare solo i titoli prodotti (ma appare sinceramente difficile comprendere la differenza fra un colloquio di accertamento sulle competenze da un colloquio di discussione dei titoli a fondamento delle competenze).

Da questo punto di vista l’incertezza è ulteriormente incrementata dalle altre modifiche apportate al decreto del 2015. La novella appena pubblicata, infatti, prevede (colmando così un’altra lacuna segnalata dai giudici amministrativi) i criteri di composizione delle commissioni (formate in parte da avvocati e in parte da professori universitari, designati, in vario modo, dal CNF e dal Ministero della Giustizia). Al di là della composizione e dei meccanismi di funzionamento delle commissioni, il nuovo art. 6 prevede che il colloquio è finalizzato (non tanto a valutare i titoli, quanto) “ad accertare l’adeguatezza dell’esperienza maturata nel corso dell’attività professionale”. Tuttavia, il successivo art. 8 prevede – in modo quasi contraddittorio – che, nell’accertamento dei requisiti per l’ottenimento del titolo, la Commissione valuti la “congruenza dei titoli presentati e degli incarichi documentati con il settore”.

Meritano di essere segnalate, infine, anche alcune ulteriori modifiche apportate dal Ministero al decreto del 2015. In particolare, si prevede la riduzione (da quindici a dieci) del numero minimo dei casi per l’ottenimento e per il mantenimento del titolo di specialista. Ma non solo; il nuovo decreto prevede che, in ogni caso, la commissione possa prendere in considerazione un numero di casi minori qualora ciò sia giustificato dalla natura e dall’importanza dei casi seguiti. A questo riguardo, la novella appare del tutto ragionevole, stante l’eccessiva rigidità di un criterio puramente (e rigidamente) quantitativo.

Alcune considerazioni conclusive: un titolo con valore “legale” … senza tutela “legale” ?

Ovviamente è troppo presto per esprimere giudizi sul nuovo decreto. Non ci si può esimere, però, dallo svolgere qualche osservazione a caldo, anche in considerazione della particolare delicatezza del tema (delicatezza dimostrata dalla complessità dell’approvazione di questa normativa).

Anzitutto, anche al netto della criticabilità dell’individuazione di alcune materie di specializzazione e della complicazione creata dagli “indirizzi di specializzazione” nell’ambito dei tre tradizionali pilastri dell’attività forense (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo), non sembrano fugate le perplessità relative ai meccanismi di accertamento dei requisiti per l’ottenimento del titolo. Al di là dell’accentramento nel solo CNF di tale verifica (scelta forse non molto pratica ma che probabilmente evita ulteriori problemi, soprattutto nell’ambito dell’associazionismo forense), anche le nuove modalità di verifica della comprovata esperienza non sono state ancora esplicitate in modo chiaro, non essendo stati forniti i criteri, oggettivi e predeterminati in anticipo, su cui tale valutazione deve svolgersi (rimanendo ancora incerto, ad esempio, se si tratti di una mera valutazione per titoli oppure se, invece, tale valutazione possa entrare nel merito della preparazione specialistica del richiedente). Sembra permanere, quindi, il rischio che la verifica da parte del CNF possa rivelarsi o una mera formalità oppure, e non si sa cosa sarebbe peggio, un ostacolo insormontabile.

L’aspetto forse più sorprendente – e per certi versi preoccupante – della nuova disciplina è data dall’abrogazione del terzo comma dell’art. 2, ossia la norma che esplicitamente attribuiva rilevanza disciplinare al comportamento dell’avvocato che avesse speso il titolo di specialista senza averlo conseguito.

Tale scelta desta notevoli perplessità, sia dal punto di vista strettamente interpretativo sia sotto l’aspetto sistematico. Dal primo punto di vista, non è chiaro se, con tale abrogazione, si intenda affermare che la spendita del titolo di specialista, pur senza averlo conseguito, sia totalmente irrilevante da un punto di vista deontologico oppure se – ed è l’opzione che mi pare senza dubbio preferibile – tale indebita spendita del titolo possa essere comunque sanzionata facendo riferimento ad altri precetti deontologici (ad esempio come violazione del divieto di accaparramento di clientela o del dovere di corretta informazione sull’esercizio dell’attività professionale). Anche dal punto di vista sistematico, però, tale abrogazione appare alquanto discutibile, visto che, di fatto, il nuovo decreto attribuisce valore legale al titolo di specialista senza però affiancare alcun tipo di tutela legale dello stesso. Al netto delle incertezze interpretative, è proprio quest’ultimo aspetto che lascia più perplessi: che senso ha istituire un titolo se poi tale titolo è privo di tutela ? Sembra quasi che sia lo stesso Ministero a non credere nel meccanismo delle specializzazioni forensi.

In effetti, in un periodo in cui si dubita della stessa utilità del valore legale attribuito ai titoli di studio più tradizionali (come ad esempio la laurea), a maggiore ragione può dubitarsi della reale utilità (nel senso di idoneità a rappresentare le effettive capacità dei singoli avvocati) del titolo di specialista. Tuttavia, è davvero alquanto singolare che sia lo stesso Ministero a dubitarne.

In effetti, sarebbe davvero opportuno un ripensamento complessivo non solo della disciplina delle specializzazioni ma anche – e più in generale – alla complessiva disciplina della informazione della propria attività professionale da parte degli avvocati. Indubbiamente la complessità del mondo attuale rende sempre più impraticabile la figura dell’avvocato generalista. In senso più critico, si potrebbe però anche pensare che le specializzazioni siano l’ultima spiaggia per un’avvocatura ormai troppo numerosa e seriamente colpita dalla crisi economica.

In questo modo, però, il problema delle specializzazioni rischia di essere frainteso. Sembra senza dubbio ragionevole concordare sul fatto che oggi nessuno sia in grado di fare tutto bene; del resto, la figura dell’avvocato generalista (ora, ma forse anche in passato) è quasi utopica. Non per questo però tutti sanno fare qualcosa bene. Come è stato acutamente osservato, anche gli specialisti sbagliano come gli altri, con la convinzione, però, di non sbagliarsi (Oldfather, Judging, Expertise, and the Rule of Law, in 89 Wash. U. L. Rev., 2012, 849). Anzi, con la diffusione delle nuove tecnologie è la stessa esistenza di esperti e di specialisti ad essere messa in serio dubbio (Nichols, The death of expertise. The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters, Oxford, 2017). E’ ormai nota la forte crescita negli Stati Uniti (ma ormai anche in Europa) di siti internet che offrono (efficienti) servizi legali automatizzati.

Al di là di quello che potrà essere il futuro prossimo della professione, ci si deve chiedere se, nella realtà attuale, abbia senso dare una “patente” di specialista. E la risposta, probabilmente, è negativa. Più che attribuire nuovi e ulteriori titoli, converrebbe rendere più trasparente il mercato della professione legale, permettendo davvero di capire, al di là delle etichette, chi sa fare bene il proprio lavoro e chi no. In ogni caso, però, appare davvero inutile creare titoli che poi non possono godere di una effettiva tutela.

Decreto 1 ottobre 2020, n. 163 — G.U. 12 dicembre 2020, n. 308

 

Da Quotidiano giuridico

 

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