Il premierato non è la legge Acerbo. Rispettoso dissenso da Liliana Segre
Per quello che hanno visto i suoi occhi, per la storia che ha attraversato, Liliana Segre va ascoltata con tutto il rispetto.
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+ Per quello che hanno visto i suoi occhi, per la storia che ha attraversato, Liliana Segre va ascoltata con tutto il rispetto. Questa voglia di sventolare bandiere, di imporre posizioni e punti di vista, fa temere un Nuovo Fascismo a chi del peggio ha la memoria viva. Ma non sono i premi di maggioranza e le tecniche elettorali a connotare un sistema, a renderlo dittatoriale o meno
Per quello che hanno visto i suoi occhi, per la storia che ha attraversato, Liliana Segre va ascoltata con tutto il rispetto. E quando interviene per condannare la riforma costituzionale di Giorgia Meloni, come pochi giorni fa in Senato, è doveroso cogliere il senso del suo discorso: nell’elezione diretta del premier la senatrice avverte un rischio democratico, coglie l’incipit di un’avventura pericolosa. Se l’esperienza conta, bisogna tenere a mente le parole di Segre perché derivano da un vissuto che coincide quasi con l’ultimo secolo.
Quanto ai dettagli del suo discorso, alle considerazioni giuridiche, ai giudizi su questo o quell’aspetto della riforma, discuterne non è reato. La senatrice manifesta opinioni su cui gli esperti si accapigliano da decenni senza mai giungere a una conclusione anzi, spesso, scambiandosi i ruoli. Si è addentrata tra le sabbie mobili della tecnica elettorale, accettando di correrne il rischio. Ad esempio: Segre ha indicato nel premio di maggioranza, che verrebbe inserito nella Costituzione, l’indizio più allarmante della deriva autoritaria in atto. Quale effetto del premio, il vincitore potrebbe governare indisturbato per cinque anni consecutivi e profittarne per nominare il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Csm, gli altri organi di garanzia; insomma per fare incetta di tutte le cariche pubbliche mortificando le opposizioni. L’anticamera di un regime. Perfino peggio della legge Acerbo, voluta da Mussolini nel 1923 per garantire al Fascismo una base parlamentare.
Purtroppo, verrebbe da dire, non c’è bisogno del premio per conquistare, l’una dopo l’altra, le “casematte” del potere (come le definiva Antonio Gramsci). Già oggi Giorgia può fare come le pare in quanto la maggioranza è stesa a tappetino; le basta attendere che venga a scadenza qualche poltrona istituzionale per piazzarvi i suoi; se verrà confermata nella prossima legislatura, Meloni si prenderà il Quirinale che nel 2029 cambierà inquilino. Sono, a pensarci bene, le conseguenze della stabilità politica che per lungo tempo è stata esaltata come il rimedio di tutti i mali italiani. Ed è proprio per ottenere un governo stabile che, dai primi anni ’90, sono state sviluppate dottrine maggioritarie (o ultra-maggioritarie) il cui fine era impedire le continue crisi della Prima Repubblica, quando un governo durava nove mesi di media.
La cultura della stabilità ha pervaso la sinistra italiana fin dai tempi dell’Ulivo. Stabilità, beninteso, per fare le riforme che servono alla società, non per tiranneggiare. Nessuno dei leader di allora demonizzava l’elezione diretta del premier, che anzi era evocata (lo ricorda Stefano Ceccanti, giurista Dem) nella Tesi 1 dell’Ulivo del 1996. Pochi ricordano che l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, propose due anni dopo di cambiare la legge elettorale introducendo un premio, da attribuire col metodo del ballottaggio, in modo che una maggioranza fosse garantita in ogni caso: e a nessuno, per fortuna, venne in mente di evocare la Legge Acerbo. Per tre elezioni consecutive l’Italia è andata alle urne con il “Porcellum” che prevedeva un premio di maggioranza; con quel sistema nel 2006 venne rieletto Romano Prodi che non era certamente il Duce. Né Silvio Berlusconi, con tutti i suoi difetti, mise in piedi un regime totalitario (assolutamente da leggere, al riguardo, la biografia di “B” appena scritta da Filippo Ceccarelli). Il “Porcellum” fu bocciato nel 2014 dalla Corte costituzionale, ma non per i timori evocati dalla senatrice: i giudici della Consulta contestarono che mancava una soglia minima per attribuire il premio, individuata nel 40 per cento. Nessuno la mette più in discussione.
Tutto questo per dire cosa? Una banalità: non sono i premi di maggioranza e le tecniche elettorali a connotare un sistema, a renderlo dittatoriale o meno. Avere maggioranze stabili è interesse di chi governa, qualunque sia il suo colore politico. Il problema vero della riforma Meloni è che non raggiunge lo scopo. È destinata a causare danni perché (lo sostiene la quasi totalità dei costituzionalisti) rende rigido un sistema flessibile, indebolisce il presidente della Repubblica, stravolge le gerarchie dei poteri, insomma è scritta coi piedi. Ma scorgervi una tendenza fascista sarebbe eccessivo, sopra le righe: significherebbe gettare al macero trent’anni di riformismo, nel nome di cosa non si capisce. E qui si ritorna all’inizio, alle preoccupazioni di Liliana Segre, al suo grido di allarme, alla sua urgenza di farsi sentire con parole che scuotono le coscienze civili.
Se un personaggio di tale statura si ribella, qualche motivo dovrà pur esserci. Qualcosa che trascende il premio di maggioranza e tutti i marchingegni giuridici; che riguarda piuttosto il clima politico, l’aria che si respira, gli sguardi torvi, gli atteggiamenti di rivalsa, i toni inutilmente aggressivi. È questa voglia di sventolare bandiere, di imporre posizioni e punti di vista, di rifiutare i compromessi con gli avversari che fa temere un Nuovo Fascismo a chi del peggio ha la memoria viva. Giorgia Meloni rifletta su queste paure, fondate o meno: è lei che le suscita, è a lei che spetta tendere la mano per prima.
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