L'insostenibile leggerezza del Centro
Nel Pd ciclicamente si riapre l'annosa questione di quanto sia importante una gamba moderata per vincere. Adesso è il turno di chi punta su Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell'Agenzia delle Entrate.
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In un mondo dominato da incantatori di serpenti, truffaldini populisti, facciamo i migliori auguri ai nuovi sperimentatori del quanto mai necessario tentativoAd un certo punto con la principale forza politica di sinistra, ma molto composita al suo interno, che sembra non crescere e non crepare, da circa trent’anni si riapre un dibattito che si immagina partorito in un salotto con uomini, soprattutto uomini, gentiluomini di fino vestiti intenti a sorseggiare tisana ai fiori di Bach (da google, “una combinazione armoniosa che può aiutare a ritrovare la pazienza e l’equilibrio nelle giornate mentalmente impegnative. Aiuta a favorire il sonno, soprattutto nei casi di stress o giornate difficili, sciogliendo tensioni fisiche ed emotive”), sulla ineludibile necessità di costituire una forza di centro a sinistra, empireo di moderati progressisti, cattolici riflessivi, studiosi e studenti, ruote di scorta ancora buone per l’uso. Un tempo lo si doveva al Pds, poi ai Ds oggi al Pd. C’è una ciclicità come i corsi e i ricorsi della storia, l’andamento delle crisi economiche per rimettere in campo il tema, che ogni volta che viene rimesso in campo sembra, appunto, il centro della questione politica a sinistra.
Senza fare troppo la storia l’onda di centro (a sinistra) si ripropone da quando è morta la Dc. A destra hanno risolto il problema nel 1994 con la creazione del partito azienda, Forza Italia, un miscuglio di tante cose, un fenomeno inedito e trasgressivo ai tempi per la compassata politica italiana, guardato con disprezzo dai notabili di allora. La sinusoide elettorale è nota, ma è chiaro a tutti che il centro a destra è e resta Forza Italia che, tra le alterne vicende della fortuna elettorale, orba del fondatore riesce a mantenersi tra l’8 e il 10%, data spesso per morta, ma evidentemente si sottovaluta quanta borghesia orfana della Dc ci sia in Italia. Quanto pesi il centro a sinistra non è chiaro da molto tempo e cioè dall’ultimo momento in cui è stato misurabile quando c’era la Margherita, ormai una ventina di anni fa scarsi. Epigoni del Partito popolare più cespuglietti vari guidati alla fine da uno che con il centro storico non aveva nulla a che fare, l’ex radicale ex verde, Francesco Rutelli. Viaggiava intorno al 10% scarso e si pensò allora di fare cosa buona e giusta e sperimentare un’operazione politica inedita e rischiosa, e cioè unirsi ai Ds, percentualmente stabilmente sopra il 20%, per creare un partito vagamente di ispirazione americana nelle regole e nelle ambizioni, chiamato Partito democratico, fondato su primarie, bagno di folla, Circo Massimo, Canzone popolare, voti quasi plebiscitari e scontati di milioni di elettori con pugno chiuso e anche no.
Nessuno ha mai capito bene, fino ai giorni nostri quale sia il cuore politico ed ideologico del giovane Pd, per cui dopo il precoce addio del suo ideatore, Walter Veltroni, rifluito nel mestiere di giornalista e regista dopo il naufragio elettorale alle regionali in Sardegna nella primavera del 2009, Renato Soru sconfitto, ci sono stati molti papi stranieri rispetto alle premesse, da Matteo Renzi a Elly Schlein, arrivati al vertice senza essere visti arrivare. Sì, perché la forza intinseca del primo stava nell’irruenza rottamatoria del via i mercanti dal tempio, di ispirazione cattolica e scoutistica, un fenomeno parallelo a Beppe Grillo: il primo voleva rivoltare il potere dentro il Pd, mandare a casa per sempre compagni di viaggio ex comunisti carichi di mal meritate medaglie e retorica, e lasciare il segno con una Grande riforma; il secondo voleva rivoltare il sistema, aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, portare lo streaming in politica e mandare affanculo il vecchiume di prima. Sono finiti tutti e due ai giardinetti, più o meno. Ma non è questo il punto. Dalla nascita del Pd ci deve essere non si sa bene perché sempre un puntello che spesso si trasforma in una tagliola politica. Succedeva anche prima: il governo Prodi cadde dopo due anni, nel ’98, perché Fausto Bertinotti non ne poteva più e doveva far emergere il movimentismo a sinistra compresso dall’Ulivo. Con il Pd accadde la stessa cosa, sempre con Prodi, quando a puntellare il governo fino a farlo cadere ci pensarono illustri sconosciuti come Turigliatto e Rossi, oltre allo stesso Bertinotti, ma da presidente della Camera.
Da allora in poi il Pd è stato portatore d’acqua di governi tecnici, di unità nazionale, di salute pubblica, spesso sostenendo politiche non proprio in linea con i principi ispiratori. Non vincendo le elezioni che sembravano stravinte prima di votare nel 2013, prendendo la guida del governo lo stesso con Enrico Letta, eroso dall’ascesa senza freni di Matteo Renzi che gli diede poco educatamente il benservito, il quale per vanagloria si diede la zappa sui piedi mettendo la sua testa in mano di amici e nemici, scommettendo sul referendum costituzionale che perse miseramente (non c’è cosa che più rianima corpi politici morti come il gioco della torre). E poi dopo qualche sconfitta, inutili scissioni di atomi di sinistra poi rientrate visto che la somma delle forze scissioniste produsse spostamento nullo, la risalita di nativi ex Pci alla guida, Nicola Zingaretti, e la riemersione da Science Po di Enrico Letta, andato a Parigi come Napoleone a Sant’Elena, poi eletto nel 2022, dimessosi da parlamentare e ritornato all’estero dove, pare, si trovi meglio.
In tutto questo groviglio di cui si capisce poco, soprattutto non è chiaro come questo andirivieni faccia bene ai potenziali elettori, per fare chiarezza, addirittura, c’è stata nel mezzo la irresistibile ascesa del tandem Renzi-Calenda, entrambi partiti Pd, eletti Pd, e poi tanto narcisi da farsi una loro forza politica da far confluire l’una nell’altra e fare un boom che levati. Calenda non prima di aver dato il bacio dell’amore ad Enrico Letta, ritirandolo qualche ora dopo. Ma poi tra loro sappiamo come è andata: dovevano fare il vero Centro del Paese ed è finita a sguaiati insulti. Oggi navigano su percentuali risibili al cospetto di un’ambizione smisurata.
Per cui il Pd che non sembra abbastanza di sinistra per chi sta a sinistra, che sembra animato e visibile soltanto nel rivendicare un vetusto antifascismo, che sta in mezzo al guado su pacifismo, ambientalismo, capitalismo, riformismo, guidato da una ledaer che prima di essere eletta alle primarie del Pd non era, ma che, malgrado tutto, mantiene una percentuale potenziale di voti sopra il 22%, incerto sul da farsi, con un potenziale alleato per niente affidabile come il M5s di Giuseppe Conte, che per quanto indefinibile politicamente resta nei sondaggi sempre sopra il 10%, insomma per questo Pd arriva ora l’eterno puntello, stavolta di centro. Un’esortazione, si badi bene, che parte da esponenti Pd, che dovrebbero fare la loro lotta interna e che invece si fanno apparentemente autonomi per farsi meglio vedere. E via riparte la convegnistica, spesso in località amene dove c’è anche qualche amabile trattoria e del buon vino. Ad onore del vero Stefano Ceccanti, costituzionalista, ad Orvieto si organizza da qualche anno. Stavolta in compagnia di Paolo Gentiloni, ex premier, ex commissario europeo e dell’eterno Enrico Morando, riformista doc, benché non centrista. Gli altri, che poi confluiranno, si sono visti a Milano, con Graziano Delrio, Romano Prodi e l’astro nascente, Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate. Chiacchiere costruttive per portare nuovi elettori, bien sur.
Si attende l’exploit con il decisivo ruolo di chi sin qui ha fatto pagare le tasse agli italiani. In un mondo dominato da incantatori di serpenti, creatori di post verità, truffaldini populisti, facciamo i migliori auguri ai nuovi sperimentatori del quanto mai necessario tentativo.
di Fabio Luppino su Huffpost
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