Anno: XXV - Numero 159    
Giovedì 5 Settembre 2024 ore 13:00
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L’occasione sprecata.

A Meloni resta in mano un'Italia non protagonista.

L’occasione sprecata.

Magari è un po’ retorico definire come “storico” il voto di giovedì pomeriggio su Ursula von der Leyen. Però storico è il tornante in cui si colloca: gli spari in Pennsylvania e l’eventualità, squadernata, di Donald Trump verso la Casa Bianca; Vladimir Putin che si prepara ad incassare la sua scommessa sull’America First. E non è il solo, in un mondo affollato di autocrati che danzano sulla crisi delle democrazie, l’Europa, infragilita nel suo asse portante franco-tedesco, anch’essa di fronte al bivio, se diventare l’epicentro dell’instabilità o puntare su una maggiore integrazione. Fine dell’istantanea.

Domanda, che precipita sull’agenda di Giorgia Meloni, arrivata alla data cerchiata in rosso: ma davvero il problema, in questo contesto, è se Raffaele Fitto (o chi per lui) farà il commissario, che deleghe avrà o se sarà vicepresidente? E ancora: davvero l’interesse dell’Italia (e anche della premier) è subordinare a ciò e ad altre amenità come qualche concessione sui balneari il tema del rapporto con la nuova Commissione? Come se un commissario, che peraltro all’Italia spetta di diritto, contasse davvero qualcosa, in termini di potere di indirizzo politico. Nel dubbio, chiedere ad esempio al Pd su quanto sia stata determinante, e non per sue colpe, la pur rilevante delega di Paolo Gentiloni.

La discussione sul “che farà Giorgia Meloni” sconta un disallineamento rispetto al mondo, neanche fosse una proiezione europea di un lessico da pentapartito impegnato in un riassetto di poltrone: il “sì tecnico” a Ursula subordinato agli incarichi, oppure l’“astensione”, ci mancano solo “i due tempi”, la “fiducia condizionata”, “l’accordo tecnico”, variante del classico “si fa ma non si dice”. La verità è che Giorgia Meloni si è infilata, da sola, in un pasticcio ed è alla ricerca di qualche arzigogolo per uscirne, tanto che si è inventata perfino una consultazione della base, per decidere il da farsi, in stile Cinque stelle. O forse ne è una variante, perché da quelle parti, di fatto, la rete vestiva di presunta democraticità scelte già compiute, qui la sensazione è che il dilemma sia proprio a monte.

Però sia questa trovata, sia i tanti elogi alla “stabilità” degli ultimi giorni segnalano un cambio di registro rispetto a un mese fa quando Giorgia Meloni si è incastrata nelle sue macchinazioni: invece di gestire il successo elettorale con serenità olimpica, è andata in Parlamento promettendo di spezzare le reni a Bruxelles. È lì che ha capovolto le priorità: dall’Italia al suo partito. Mutatis mutandis, a proposito di trappola delle identità, si è comportata, nella logica, in modo non dissimile dall’odiato Emmanuel Macron. L’uno si è tolto gli abiti da presidente della Repubblica, ha indossato quelli del capo politico e ha consegnato la Francia all’ingovernabilità. Lei ha dismesso quelli del premier, ha indossato quelli del leader dei Conservatori e ha deragliato. Con l’aggravante che, a differenza di Macron, lei aveva vinto le elezioni, e anche molto bene, dopo due anni di allarmi democratici, retorica antifascista, esami del sangue.

La macchinazione nella quale è rimasta incastrata sta, semplicemente, in questo calcolo: l’establishment tradizionale ha perso, prima o poi esso dovrà confrontarsi con le destre, a quel punto, smisto io il traffico, essendo parte di quel mondo ma al contempo incarnando, in esso, il populismo buono che già ha una interlocuzione con Ursula. E invece: i cechi se lo sono smistato da soli e hanno annunciato che voteranno Ursula; Viktor Orbán, tra una visita a Trump e una a Putin, ha mandato in tilt il traffico altrui, al punto che gli altri hanno messo politicamente in discussione la sua presidenza di turno dell’Ue. E financo Santiago Abascal di Vox – tu quoque – le ha sfasciato il gruppo andandosene con Marine Le Pen e Viktor Orbán, nell’ambito di una radicalizzazione domestica che lo ha portato a uscire da cinque giunte regionali in Spagna, dove governava coi popolari, per questioni di politiche migratorie.

Morale della favola: Giorgia Meloni ha giocato da capo partito che ambisce a guidare l’internazionale sovranista nel suo rapporto con l’Europa, più che da premier che si muove sulla base di un’idea dell’interesse nazionale, col consenso dell’Italia alle spalle. E, dopo aver toccato con mano che, tecnicamente, l’internazionale sovranista non può esistere, arriva al dunque più fragile ed esposta sia come capo partito, perché le è franato il suo mondo, sia come premier, perché al momento del voto il governo italiano si presenta con tre linee: un vicepremier che dice no a Ursula (Matteo Salvini), uno che dice sì (Antonio Tajani), la premier che dice “nì” o “forse”. Praticamente l’Italia non offre una linea maggioritaria di governo, ma un alato dibattito tra tre partiti condizionato anche da dinamiche interne.

Se il “nì” diventasse “no”, è chiaro che una rottura sulla nuova Commissione equivarrebbe a un harakiri, anche in questo caso, doppio: sia come capo partito, che finirebbe addirittura per dare ragione a Salvini, sia come premier. Perché Giorgia Meloni, finora, ha fatto proprio della collocazione internazionale l’elemento caratterizzante del suo governo. E ha trascorso mesi a ostentare il suo rapporto con Ursula, magnificando le presunte svolte storiche determinate, a ogni appuntamento europeo, dall’altrettanto presunto protagonismo italiano. Insomma, quando doveva puntare i piedi sulla politica (vai alla voce: immigrazione) ha evitato, ora li punta sul potere e sugli incarichi. Proprio l’ultima fotografia di giornata prima del voto a Bruxelles rappresenta icasticamente la contraddizione: come si fa ad andare a Tripoli con l’idea di riportare l’Europa in Africa, facendo dell’Italia, col piano Mattei, l’apripista del processo e mettersi all’opposizione della nuova Commissione?

E torniamo al punto, squisitamente politico. Che non è la sovrastimata contropartita del commissario qui ed ora. Ma, semplicemente, se all’Italia conviene o meno andare, in futuro, in rotta di collisione con l’Europa, col debito pubblico che abbiamo e con gli spari che ci sono in giro. Magari alla fine troverà il modo, all’italiana, di “convergere senza convergere”, di appoggiare, nel voto segreto, senza scoprirsi troppo a destra nelle dichiarazioni palesi. Però è già chiaro che l’occasione di un protagonismo italiano è stata già sprecata.

 

Di Alessandro De Angelis su Huffpost

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