Anno: XXVI - Numero 60    
Venerdì 28 Marzo 2025 ore 14:00
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Meloni si è persa la bussola a Palazzo Chigi Trump e Bruxelles, Salvini e Tajani, dazi e salari.

La premier, pontiera a tutto campo, per il momento ha scelto di non sciogliere le contraddizioni della sua maggioranza, e le incertezze su dove collocare il paese nel mondo che cambia. Possibili scenari per quando (presto) sarà costretta a farlo.

Meloni si è persa la bussola a Palazzo Chigi Trump e Bruxelles, Salvini e Tajani, dazi e salari.

A Palazzo Chigi il disco si è incantato: “Va tutto bene, nella maggioranza non ce alcuna divisione di rilievo”, ripetono fino allo sfinimento. Eppure, per la prima volta, Giorgia Meloni balla paurosamente. Ora non è più lei a dare le carte e a tenere il boccino in mano come quando, sotto i bacini sulla testa di Joe Biden, poteva far passare in Parlamento qualunque aiuto militare all’Ucraina. Adesso, con il presunto amico Donald Trump alla Casa Bianca, tutto è diverso.

La situazione, a dispetto delle smentite dei protagonisti, è critica. Per la prima volta dal Dopoguerra, il governo è chiamato a compiere delle scelte che disegneranno il futuro e la postura internazionale dell’Italia. C’è da decidere sul riarmo, sull’autonomia strategica e di sicurezza dell’Europa dopo che Trump l’ha scaricata lasciandola alla mercé del suo amico Vladimir Putin. E c’è da imboccare, o meno, la strada della difesa comune europea che il francese Emmanuel Macron, il tedesco Friedrich Merz e perfino il britannico Keir Starmer (rinnegando di fatto la Brexit) hanno cominciato a lastricare.

Ebbene, di fronte a queste scelte storiche, il centrodestra è come una maionese impazzita. Letteralmente destrutturato. Una situazione che in altri tempi – soprattutto in presenza di un’alternativa di governo – avrebbe portato sparati alla crisi, visto che l’unità in politica estera nei passaggi complessi è base e cemento di qualsiasi maggioranza.

Il centrodestra, invece, si alimenta di divisioni. Il vicepremier leghista, oltre a sventolare i pon-pon da cheerleader di The Donald, dice no alle nuove spese per gli armamenti e boccia senza appello la difesa comune europea. E telefona, lui che di mestiere fa ministro dei Trasporti, al vicepresidente americano J.D. Vance. Ma questo colloquio, nel quadro complessivo, è ormai folklore. O quasi.

Sul fronte opposto c’è l’altro vicepremier, Antonio Tajani. Il segretario di Forza Italia, imbeccato e sostenuto da Marina Berlusconi che non vuole saperne di archiviare l’Unione europea, sabato ha messo a verbale: “Se il governo fosse antieuropeista, noi non staremmo un minuto di più al governo”. Insomma, una vera e propria minaccia di crisi, con tanto di condizioni per evitarla. La prima: “Vogliamo la difesa comune europea che era il grande sogno di Silvio Berlusconi”. La seconda: “È indispensabile procedere al rafforzamento dell’apparato militare. Ne va della nostra sicurezza”. In più Tajani ha dato del “quaquaraquà”, del buffone chiacchierone, a Salvini che gli ruba il ruolo di ministro degli Esteri. Ma pure questo, vista la gravità della situazione, è quasi folklore.

Ebbene, se questo è il quadro, o siamo di fronte a una colossale ammuina e quando arriverà il momento di votare in Parlamento ognuno metterà via l’artiglieria; oppure il sentiero di Meloni è davvero stretto. Se la premier dicesse “no” al riarmo e alla difesa comune, Forza Italia potrebbe spingerla (con la benedizione dei Berlusconi) fuori da Palazzo Chigi ingaggiando una campagna elettorale di sicuro successo (visto anche la il caos nel Pd) sotto le insegne europeiste.  Se invece la premier dicesse “sì” alle spese per gli armamenti, il vicepremier e segretario leghista potrebbe votarle contro. Con un problema non piccolo: al contrario di Forza Italia, la Lega non ha praterie elettorali da conquistare. A destra gli elettori hanno fin qui dimostrato di preferire l’originale: i Fratelli d’Italia di Meloni, appunto. Ciò significa che Salvini alla fine cederà? Farà come ha fatto finora sugli aiuti a Kiev: tante minacce, ma poi si è sempre messo prono agli ordini della premier nelle aule parlamentari?

È presto per dirlo. Prima c’è il congresso della Lega a inizio aprile. Poi c’è da considerare che avere un pistolero sovranista e nazionalista a Washington, oltre un amico a Mosca, hanno ringalluzzito Salvini. E leader leghista è solleticato non poco anche dal sogno dell’internazionale dell’ultra destra lanciato da Elon Musk (quello per cui Matteo fa da piazzista di Starlink). Insomma, anche senza scolarsi mojito, Matteo potrebbe compiere lo strappo. L’alternativa sarebbe perdere la faccia. E di brutto.

In tutto questo, a rendere il quadro del centrodestra ancora più inquietante, è l’impalpabilità della posizione di Meloni. Un po’ europea, un po’ atlantica. Praticamente paralizzata. E le cronache da Washington – con i balletti di The Donald sui dazi, gli strafalcioni negoziali e diplomatici di Vance e Witkoff, la “pace a Keiv in una settimana” che non arriva – disorientano la premier ancora di più.

 Ma con chi si schiererà Meloni quando arriverà il momento della verità? Con Salvini o con Tajani?

Una mediazione questa volta appare complessa, se non improbabile. O di qua o di là. Con l’Europa o contro l’Europa assieme a Trump e a Putin.

Marina Berlusconi ha confidato di ritenere che sia stato il ritorno del tycoon alla Casa Bianca a far perdere la bussola a Meloni. E i segnali vanno nella direzione indicata dalla patron di Fininvest: Giorgia, nell’ormai spasmodica attesa di un invito a Washington che la liberi dall’isolamento in cui si è cacciata, per ingraziarsi il presidente americano venerdì a Bruxelles ha professato lo stesso credo: “Sono una vera sovranista e nazionalista”. Il che si sposa poco o nulla con il vincolo scolpito fin qui nella pietra, di adesione convinta dell’Italia all’Unione europea. Tant’è, che altri indizi portano altrove: Meloni in una settimana ha rinnegato il Manifesto di Ventotene, ha definito “rappresaglie” i contro-dazi europei in risposta ai dazi americani, ha etichettato come “roboante” il piano per il riarmo proposto da Ursula von der Leyen. Inoltre, appare tutt’altro che entusiasta di attingere agli strumenti proposti dalla Commissione Ue per acquistare armamenti. Così, per prendere tempo, la premier cerca di spostare il più lontano possibile il momento delle scelte e della conseguente resa dei conti con gli alleati: “Per noi prendere una decisione sul riarmo entro fine aprile è prematuro”.

Un po’ come il cappone che vorrebbe rinviare il Natale.

Il bello (o il brutto) è che nessuno, almeno in apparenza, nella maggioranza sembra aver capito di ballare sulla tolda del Titanic. Nel centrodestra regnano l’inconsapevolezza o le bugie. Salvini parla di “splendidi rapporti con Tajani”. Tajani nega ci sia bisogno di un “chiarimento”: “Siamo coesi”. Meloni celebra la “compattezza della maggioranza”. Ma c’è, nei corridoi del Parlamento, chi già sussurra il nome del ministro della Difesa, Guido Crosetto, come possibile traghettatore-premier per arrivare alle urne nel 2027. Ipotesi impraticabile, pressoché impossibile, considerati i numeri. Racconta però il clima.

di Alberto Gentili su Huffpost

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