Problema a sinistra: la leadership
Senza una forza moderata (che né Renzi né Calenda rappresentano a sufficienza) è quasi impossibile vincere. Ma il leader di una forza moderata aprirebbe la contesa con Schlein e Conte.
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Quello che colpisce nei numerosi sondaggi pubblicati dalla stampa è la sostanziale parità dei due schieramenti politici. Centrodestra e centrosinistra non pesano allo stesso modo, dal momento che la destra mantiene più o meno il suo vantaggio, appena eroso dal trascorrere del tempo e dalla scarsità dei risultati raggiunti. La sinistra, quando ci riesce, riduce questo vantaggio un pezzettino per volta, tuttavia a un ritmo troppo blando per lasciar presagire uno smottamento degli equilibri. Per cui i numeri rilevati sono un po’ la fotografia di uno stallo. E con un sistema politico in buona parte maggioritario, qual è il nostro, è difficile prevedere un ribaltamento dei rapporti di forza. Tanto più che le elezioni sono lontane, nel 2027, e l’anticipo del voto, pur possibile, dipende da fattori oggi non prevedibili e comunque non favorevoli alla coalizione Pd-5S-Avs.
A questo punto la maggior parte degli osservatori si concentra sulle divisioni interne alle due coalizioni. Le fratture esistono, beninteso, ma con una differenza che merita d’esser colta. A destra sono più abituati a incollare i cocci, diciamo così, perché hanno il potere, il quale rappresenta un potente cemento. La spartizione dei ruoli è più facile, quasi inevitabile. E se la Lega, o magari FdI, interpretano la parte degli intransigenti o degli estremisti, ecco che Forza Italia si colloca al centro e va a cercare i suoi consensi nell’area cosiddetta “moderata”. A sinistra questo gioco è più difficile. Primo, perché stare all’opposizione non è mai comodo; secondo, perché il centrosinistra tende davvero a pendere verso un certo radicalismo. Non è la linea del Pd, ma il partito di Elly Schlein, volente o nolente, è trascinato a sinistra dagli alleati che lo condizionano. Si tratti di Giuseppe Conte o di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, il risultato è un’oggettiva difficoltà nel rivolgersi a un elettorato centrista, chiamiamolo ex democristiano, che pure è essenziale per vincere le elezioni.
La discussione sull’ex direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, è sintomatica. In lui non c’è al momento alcuna intenzione di guidare il centrosinistra, bensì il desiderio di rimpolpare l’area di derivazione cattolica. Ma ciò è bastato per suscitare dubbi e sospetti, quando invece è essenziale un certo riassetto al centro, se la coalizione Schlein-Conte vuole nutrire qualche minima speranza di successo elettorale.
Dal punto di vista della destra questa contraddizione è stata valutata per quello che è: un limite piuttosto grave dell’alleanza di centrosinistra. E quindi è diventata motivo di insinuazioni maliziose eppure realistiche: vedi l’analisi di Daniele Capezzone su Libero di stamane. In poche parole, si argomenta che una coalizione elettorale a guida Schlein non può andare molto lontana, mentre è necessario aprirsi a un elettorato che Matteo Renzi e Carlo Calenda, con le loro sigle, non riescono ad aggregare: o meglio, non riescono a “incollare” un pezzo di società moderata alla sinistra radicale. Per cui magari il cartello elettorale del centrosinistra può vincere le elezioni (periodo ipotetico) ma poi non sarebbe in grado di governare.
Quindi il vero tema di qui ai prossimi mesi riguarda la “leadership”. Non quella indispensabile per guidare il Pd, bensì quella che si rivolge al paese e gli chiede di mettere nelle urne il nome più affidabile per il governo. Come è chiaro, si entra in un gioco pericoloso. A destra il tema non esiste perché la candidatura di Giorgia Meloni non è ovviamente in ballo. A sinistra, invece, qualsiasi nome che venga avanzato è suscettibile di accendere la contesa con Schlein e in subordine con Conte. Qui è il vero nodo che il centrosinistra dovrà affrontare. O sarà in grado di scioglierlo, ovvero qualcuno dovrà tagliarlo con la spada, come il famoso nodo di Gordio.
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