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Rifondazione Comunista va a Congresso e litiga ancora sul governo Prodi

Il partito è sempre quello, i protagonisti pure.

Rifondazione Comunista va a Congresso e litiga ancora sul governo Prodi

Goodbye Lenin, addio Schlein. Rifondazione Comunista va a congresso – dal 31 gennaio – spaccata a metà tra la linea ‘entrista’ del segretario Maurizio Acerbo e quella ‘oltrista’ dell’ex ministro Paolo Ferrero. Da una parte l’ipotesi di un accordo con il centrosinistra, dall’altra la costruzione di una coalizione di duri e puri con Potere al Popolo, cercando di attrarre a sé anche i Cinque Stelle. Ma nel dibattito congressuale i toni si scaldano sul passato: dov’è iniziata la crisi del partito, al congresso di Chianciano del 2008 che segnò la sconfitta dell’ala Bertinotti-Vendola o prima, nella partecipazione del governo Prodi? In attesa che i comunisti trovino una risposta, va ricordato che la divaricazione potrebbe costare cara al centrosinistra: con il suo 1-2 per cento, Rifondazione può decidere chi vince le prossime politiche.    

Ne è convinto il segretario Acerbo che nella sua mozione “Fuori la guerra dalla storia” invita a “uscire dall’elettoralismo estremistico” che fa rifiutare “qualsiasi alleanza, anche quelle rese necessarie dalle infami leggi elettorali vigenti o da spazi concreti di iniziativa”. Acerbo propone ai quasi 10mila iscritti un ragionamento elementare: “Se ci si presenta alle elezioni è del tutto evidente che l’obiettivo sia eleggere” per cui si tratta semmai di “contrastare, cioè aggirare, per quanto possibile, con una intelligente tattica e dei margini di spregiudicatezza” i trucchi e le truffe del potere che sono stati pensati per impedire ai comunisti di eleggere”.

Ma nel corpaccione – ora piuttosto esile – del partito circola “l’anatema ‘volete andare col Pd!'”. Il segretario ne è consapevole. La circostanza, riflette Acerbo, “nasconde un problema vero se cioè il rilancio di Prc debba consistere in un ripiegamento settario, nel rifiuto pregiudiziale di ogni possibile alleanza, in una predicazione millenaristica e in definitiva nell’isolamento identitario”, nella convinzione che solo “i comunisti hanno il segreto per la salvezza dell’anima” o piuttosto “se dobbiamo impegnarci nella riscoperta del ruolo della politica condizione indispensabile per superare in ogni situazione le condizioni dello stato presente e far muovere le cose in avanti, costruire convergenze su processi reali di cambiamento senza opportunistici cedimenti?”

Detta così, è un dilemma alla Catalano: “È molto meglio essere allegri che tristi”. Che si complica, tuttavia, quando si prende in esame il tenore dei possibili alleati: il Pd appunto. A Schlein, il leader di Rifondazione riconosce di aver prodotto “un indubbio spostamento di accenti” che possono portare “ad effettivi cambiamenti di politica e indicare una nostra proposta politica che riguardi il governo del Paese”. Insomma, niente campo largo, vade retro. Ma tentare una convergenza programmatica, sì. Questo propone Acerbo che per essere convincente chiama in soccorso Marx, Engels e Lenin. I due padri fondatori, nel Manifesto del 1848, scrissero: “I comunisti lavorano all’unione e all’intesa dei partiti democratici”, che non erano quelli di Schlein, ma ci siamo capiti. E Vladimir Il’ič Ul’janov, autore del celeberrimo ‘Estremismo malattia infantile del comunismo’, con ancora più nettezza: “Colui che attende una rivoluzione sociale pura, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione”. Se le cose stanno così, può andar bene anche il Pd di Elly Schlein.

Ce ne sarebbe abbastanza per convincere Ferrero, senonché l’ex ministro alla solidarietà sociale di Prodi, ha un’idea del tutto diversa da Acerbo, su Schlein e i suoi alleati. Il titolo della sua mozione dice molto: “No alla guerra. Per un mondo nuovo. Per una coalizione popolare contro la guerra, il liberismo, la devastazione ambientale, il fascismo”. In sostanza, per sconfiggere la destre bisogna “fare come Melenchon”, cioè uscire “fuori dal bipolarismo”. Perchè su molti temi, Meloni e Schlein pari sono. La strada non può essere cioè “la sommatoria delle diverse forze di opposizione così come sono organizzate nel sistema bipolare. Questo lo abbiamo fatto varie volte in questi trent’anni – dalla desistenza all’accordo di governo – ma si è dimostrata una strada inefficace. Dai rapporti di forza oggi esistenti nell’opposizione ne emergerebbero politiche che non farebbero altro che rafforzare le forze reazionarie. Su temi come la guerra, il raddoppio delle spese militari, il mancato abbassamento dell’età pensionabile, la mancata approvazione di una norma sul salario minimo e sulle politiche di austerità c’è la sostanziale condivisione da parte del centrosinistra dell’orientamento di fondo del governo delle destre fasciste”.

Non resta allora che “modificare i rapporti di forza nell’opposizione e sconfiggere l’ala guerrafondaia e liberista che oggi è maggioritaria”. Il Pd di Schlein, non quello di Renzi – ricordano i seguaci di Ferrero – vota nel Parlamento europeo come Giorgia Meloni. Quindi nessuna alleanza con la sinistra liberista, nessun entrismo nel centrosinistra, ma la costruzione di una coalizione sociale con le forze antagoniste fuori dal parlamento, tentando di convincere il M5s a restare fuori dal campo largo.

Lo scontro è, mutatis mutandis, lo stesso che segnò il congresso di Chianciano del 2008, quando Paolo Ferrero strappò il partito a Nichi Vendola e Fausto Bertinotti, diventando segretario dal 2008 al 2017. Poi ci fu la scissione e dopo quel congresso, Rifondazione non ha più eletto parlamentari. Comprensibile, dunque, che la vicenda venga richiamata a 16 anni di distanza e a un nuovo bivio elettorale.

Lo fa Acerbo ricordando che quel congresso “portò a una spaccatura a metà del partito e a successive scissioni. Quell’ipotesi strategica di costruire ‘in basso a sinistra’ una coalizione politica ed elettorale unenendo le forze politiche antiliberiste ed alternative al centrosinistra non ha funzionato”, dice. La crisi di Rifondazione, aggiunge, “fu segnata negativamente dalla scarsa conflittualità nel governo e dalla mancata volontà di rompere di fronte alla violazione di elementi essenziali del programma come l’abrogazione delle leggi sulla precarietà. Dopo 16 anni dobbiamo avere l’onestà politica di ammettere che il Prc si è indebolito come attestano tutti i dati oggettivi”.

Quella di Acerbo è una frecciata a Ferrero, che era ministro nel secondo governo Prodi. Ferrero invece trova “sbagliato far discendere la crisi di Rifondazione dal congresso di Chianciano “che si tenne a luglio” mentre, ricordano i suoi, il naufragio elettorale della Sinistra arcobaleno avvenne nell’aprile del 2008. “La crisi di Rifondazione”, dicono i ferreriani, non è nata al governo, ma “quando era nella maggioranza che sosteneva il governo Prodi. Quella collocazione ne ha corroso pesantemente la credibilità”. Il problema è semmai l’opposto: “Dopo Chianciano ha nuociuto non aver applicato come era necessario la linea di chiara alternativa al centrosinistra a tutti i livelli, così come dimostra in occasione delle europee “la scelta di sfasciare Unione popolare” per “aggregarci in modo subalterno alla lista Santoro”.

Dal 2008 si arriva in fretta alle elezioni più recenti: alle europee Ferrero – ex Democrazia proletaria, sostenuto anche dall’ala stalinista del partito – avrebbe voluto l’alleanza con Potere al Popolo – espressione dei centri sociali e degli antagonisti – in Unione popolare. Acerbo ha promosso la lista ‘Pace, terrà, dignità’ capeggiata da Michele Santoro. E ora difende la scelta: “Nel documento di Ferrero – dice – il tema dei rapporti con Pap e l’Up magicamente si inabissa, forse nella consapevolezza che evocare il rilancio di Up, naufragata sugli scogli dei veti di Pap, è tema largamente impopolare nel partito e che dunque è più opportuno dissimulare e sorvolare”.

Il giudizio su Potere al Popolo è tranchant: “Un soggetto – dice la mozione di Acerbo – dalla cultura ipersettaria il cui tratto distintivo è l’indisponibilità alla ricerca di qualsiasi alleanza e la predicazione estremistica che non guarda alle masse ma solo a se stessa”.  In fondo Pace terra e dignità ha preso il 2,3 per cento dei voti, che “seppur insoddisfacente è stato comunque migliore dell’1,1 per cento riportato nel 2018 da Potere al Popolo e dell’1,4 per cento ottenuto nel 2022 da Unione popolare”.

Insomma, la discussione potrebbe diventare una resa dei conti. Secondo le previsioni della vigilia Ferrero avrebbe dalla sua il sostegno della maggioranza dei membri del Comitato politico nazionale e potrebbe vincere il congresso. Preludio a una nuova scissione? Difficile – considerati i numeri attuali – ma non impossibile. Alle recenti regionali in Umbria, Rifondazione ha sostenuto Stefania Proietti con la lista ‘Umbria per la sanità pubblica e la pace’, ed ha preso il 2,43 per cento. Ma in Liguria è riemerso l’antico vizio dei comunisti, il frazionismo, con tre liste, quella di Rifondazione a sostegno di Andrea Orlando, e poi quella di Marco Rizzo e quella del trotzkysta Marco Ferrando.

A complicare le cose ci si mette l’emergenza economica che attanaglia il partito. Dal 2021  il Prc non partecipa più alla ripartizione del 2 per mille, che pure la vedeva gratificata da 55 mila donazioni, per un totale di 575mila euro (più di Forza Italia, per dire). Da allora, inseguita dall’agenzia delle entrate che reclama il pagamento dell’ Imu per le sezioni, ha dovuto a più riprese stringere la cinghia. In occasione del XII congresso, il partito ha lanciato una sottoscrizione tra gli iscritti (‘la tredicesima per il dodicesimo’, è il nome della campagna di fund raising), un appello per un prestito, da 500 euro, dalle federazioni locali al nazionale (certificato con lettera di credito), oltre che un piano di dismissione degli immobili.

È un passaggio complicato, che metterà alla prova lo spirito di corpo, e coinvolgerà, manco a dirlo, anche il simbolo, la falce e martello, l’eredità strappata ai Democratici di Sinistra, fin dalla nascita del partito, nel 1991. Averlo visto scomparire nella lista di Santoro – in favore di una colomba col ramoscello d’ulivo – non è piaciuto ai ferreriani. Al congresso chiederanno la modifica dello statuto per mettere in chiaro che alle elezioni la rinuncia al simbolo deve essere approvata dai due terzi del comitato politico nazionale. Quasi sicuramente, dunque, alle prossime politiche la falce e martello ci sarà.

Dalla contesa tra i due fronti si sfilano i comunisti sardi, con una mozione ‘autonomista’ che si ispira a Togliatti. Chiedono “autonomia nelle convergenze con sensibilità che si riconoscono nella sinistra più radicale e soprattutto con le forze autonomiste e indipendentiste sarde di ispirazione progressista con cui sono avviati percorsi unitari”. Per Rifondazione, la Sardegna è un’isola felice. Mentre a Roma l’alternativa è tra Elly Schlein e Potere al popolo, a Cagliari hanno corso alle ultime regionali alleati con Renato Soru e Carlo Calenda. Non esattamente Lenin.

Ps.: fuori dal Prc i trotskysti osservano il dibattito alimentando qualche speranza. Per loro Rifondazione è pur sempre un partito “subordinato alla borghesia”, dice Franco Grisolia. Ma ciò non stupisce, perchè “come diceva Trotsky, il pensiero umano tende ad essere conservatore, e nella sua specificità questo vale anche per l’avanguardia del proletariato. Venga finalmente, di fronte a tutto questo, la comprensione per ogni comunista che il suo posto è fuori da Rifondazione e insieme a noi del Partito Comunista dei Lavoratori”.

di Alfonso Raimo. Huffpost

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