Tre riforme in bilico.
Autonomia affossata, premierato inabissato e nemmeno la separazione delle carriere si sente tanto bene.
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La logica, fin dall’inizio, è stata quella delle bandiere: a me il premierato, a te la separazione delle carriere, a te l’Autonomia. A ognuno la sua “madre di tutte le riforme” e più propaganda per tutti, anche un po’ dell’uno a scapito dell’altro. Matteo Salvini mica era tanto contento di intronare la donna sola al comando col premierato. Giorgia Meloni mica era tanto contenta di pagare un prezzo al Sud con l’Autonomia e mettere comunque sub iudice il governo col referendum. Antonio Tajani (con annessa real casa berlusconiana) mica era tanto contento di consegnarsi a Giorgia Meloni e scapicollarsi al Sud, però vuoi mettere realizzare il sogno del compianto Fondatore sui giudici. Bene, fine della premessa. A quasi metà legislatura lo stato dell’arte è questo: una riforma è, sostanzialmente, affossata (l’Autonomia); una è, sostanzialmente inabissata; una (la separazione delle carriere) non si sente tanto bene.
L’Autonomia è stata pressoché demolita dalla Corte (leggi qui). Alcuni punti sono incostituzionali, altri da cambiare. La riforma, per come era stata concepita, era un ponte: l’affermazione di un principio, in attesa della realizzazione. Non un automatismo, perché per la realizzazione serviva la definizione dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni). Costo stimato: quanto quattro finanziarie. Diciamo così: la Corte ha bombardato il ponte, affermando che quei principi non sono coerenti con un disegno di tenuta istituzionale e sociale del paese. Dice: si può fare, ma non così. Perché così si mette in discussione la natura dello Stato nazionale e il suo impianto solidale. Dunque ora si deve tornare in Parlamento, a occhio salta almeno un quesito dei referendum, la bandiera resta ma bucata.
Il premierato è passato al Senato lo scorso 20 giugno tra le fanfare. Poi è stato incardinato in Commissione Affari costituzionali della Camera assieme alla riforma della giustizia. Si disse: “Iter concomitante”: quindici giorni si discute l’una, poi quindici giorni l’altra. Già questo indicava un rallentamento. E infatti si è inabissato. Va bene, ci sono ragioni tecniche: siccome c’è la manovra e siccome il governo sforna provvedimenti sulla sicurezza come un fornaio sforna pizzette, tra Albania, decreto paesi sicuri, decreto flussi diventato poi un unico decreto, la Commissione ha difficoltà a cuocere quella prelibatezza del premierato. Però la madre di tutte le ragioni è, squisitamente, politica: più si ritarda l’approvazione, più ci si può spingere in là col referendum. Giorgia Meloni ha capito che su di esso si gioca l’osso del collo perché l’argomento mette assieme tutte le opposizioni. E, nel timore di fare la famosa fine di Renzi nel 2016, l’iter che ha in mente (quantomeno nel metodo) è quello di Berlusconi vent’anni fa. Approvò la riforma Calderoli (sempre lui) nel novembre 2005, ma il referendum si celebrò a giugno dell’anno dopo. In mezzo, ad aprile, c’erano le elezioni politiche e voleva evitare una sconfitta prima (gli andò comunque male). La premier fa lo stesso calcolo: se perdo il referendum prima delle politiche, mi azzoppo. Quindi: approvo il premierato alla fine di questa legislatura, così ho la bandiera, ma il referendum lo faccio dopo, così anche se perdo, resto a palazzo Chigi.
Sulla riforma della giustizia, complice il clima che si è creato sui giudici, si procede invece a tappe forzate con l’obiettivo di approvarla entro il 29 novembre. Nella fretta però si commettono errori. Ed è quel che è accaduto con la famosa scelta del “sorteggio” non solo per i togati del Csm ma anche per i laici. Quelli eletti dal Parlamento, norma palesemente incostituzionale. Un pasticcio buono per alimentare, in un clima di sospetti, la caccia alla “manina”. Inevitabilmente, in questo clima, quella incriminata sarebbe dei giudici presenti nell’ufficio legislativo di via Arenula, con lo scopo di sabotare la riforma. Per non rallentare l’idea di farla comunque passare e si vedrà al Senato. Obiettivo: chiudere lì la prima lettura entro giugno. Se ci sono modifiche, torna alla Camera, poi c’è la famosa doppia conforme, ovvero un doppio passaggio – Montecitorio e Palazzo Madama – solo su un sì o un no, senza possibilità di emendare. Gli ottimisti fissano la data del referendum nel 2026.
Dunque: un referendum auspicato a fine legislatura (giustizia), uno rinviato, come da calcolo politico, alla prossima (premierato), uno probabilmente in procinto di saltare e poi boh (Autonomia). Succede così, senza un disegno d’assieme. E’ chiaro che, per dirne una, se si fossero fatte le cose per bene incrociando il tema della forma di Stato e di governo e quindi prevedendo un Senato delle Autonomia, il regionalismo sarebbe stato più ordinato e l’impianto più coerente. Sia come sia, il risultato per ora è che, nel racconto del governo, si è esaurita la spinta propulsiva del tema riforme. C’è la sicurezza, l’Albania e tante belle cose, ma le bandiere sventolano meno di prima.
di Alessandro De Angelis Huffpost
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