Vocazione minoritaria. Per arrivare a Palazzo Chigi, Schlein si infila in trappola
Abbandona le vecchie tradizioni (cattolici democratici, riformisti laici) e si affida a Conte, Landini, Fratoianni e Bonelli. Ma così finirà col perdere la metà del partito che, per esempio sulle armi, sta col le socialdemocrazie europee.
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È abbastanza normale che Elly Schlein, sentendosi sfidata, tenti di riaffermare la propria autorità sul partito. Un chiarimento è il minimo, in questi casi; altrettanto ovvio che l’attenzione mediatica sia tutta concentrata sullo scontro interno al Pd: quando avvertono l’odore del sangue le “iene dattilografe” (cioè i giornalisti, secondo la definizione iconica di Palmiro Togliatti poi ripresa da Massimo D’Alema) accorrono assetate. La politica, si sa, è peggio della savana. Ma ridurre lo scontro a un “qui comando io”, a un regolamento di conti tra gang, a un conflitto generazionale tra la nouvelle vague incarnata da Schlein e i vecchi mandarini cinesi tipo Paolo Gentiloni, Romano Prodi, lo stesso Dario Franceschini, ecco, una tale rappresentazione oltre che faziosa sarebbe meschina, riduttiva. Dietro lo scontro si colgono questioni più serie. Riguardano l’identità del Pd, la sua natura, dove si posiziona sui drammi del presente, come si presenterà alle future elezioni, a quali mondi busserà chiedendo sostegno.
L’impressione di mezzo partito (quello sotto attacco) è che Schlein abbia deciso di liquidare la sinistra di governo cosiddetta; ovvero di mettere in un angolo tutti quanti predicano concretezza, realismo, senso del dovere, equilibrio, etica della responsabilità. Cioè i cattolici democratici di matrice Dc e i riformisti laici aggrappati alle loro idee, figli di culture antiche: vengono considerati il passato, la segretaria sistematicamente li ignora, rifiuta di rapportarsi, li depennerà dalle future liste elettorali, ne farà strage. L’anima plurale del Pd verrà compostata per meglio corrispondere ai tempi nuovi, ancora da decifrare, e non creare ostacoli al Piano Schlein.
Quale sia il piano è un segreto di Pulcinella. Elly punta a conquistare Palazzo Chigi, tra due anni, alla testa di una coalizione che più le somiglia: gialla e rosso fuoco. Con il programma appaltato a Giuseppe Conte, a Nicola Fratoianni, ad Angelo Bonelli per motivarli, farli sentire importanti, azionisti con la “golden share” e la speranza di spartirsi le poltrone, Quirinale compreso (quando Sergio Mattarella esaurirà il mandato). I partitini centristi, sebbene irrilevanti, anzi proprio per questo, finiranno con l’accodarsi dietro promessa di qualche seggio. A Matteo Renzi, per dire, ne sarebbero stati già garantiti 8 se riuscirà a raggiungere il 2 e mezzo per cento, una decina almeno a Carlo Calenda se prenderà un punto in più. Sarà una coincidenza del tutto casuale, per carità, ma non una parola di biasimo o di critica si è udita dai due partiti, e nemmeno da +Europa, dopo l’astensione Pd sul riarmo europeo che loro sostengono invece a spada tratta. Lo statista di Rignano non ha battuto ciglio nemmeno quando il Pd ha sposato il referendum contro il Jobs Act, la creatura di cui andava fiero. Il silenzio è d’oro.
Ma c’è un problema. Liquidati gli oppositori interni, e aggregati i centristi alla carovana, Schlein troverebbe un ostacolo: gli elettori moderati, compresi i propri. Esistono mondi che non si sentirebbero rappresentati se, per esempio, sul welfare decidesse Maurizio Landini oppure Marco Travaglio tracciasse il solco sulla politica estera e l’altro Marco, Tarquinio, sugli armamenti. Che non sia facile venirne a capo lo dicono i sondaggi, ultimo quello di Alessandra Ghisleri sulla Stampa. Dove risulta favorevole ad aumentare le spese militari l’85 per cento degli elettori di Azione, il 71 di Italia Viva e quasi la metà di quelli Pd. Sommati insieme fanno milioni di voti, decisivi per far vincere o perdere la prossima volta.
Grilli parlanti come Luigi Zanda interpretano questi umori. Chiaro che un Sandro Ruotolo, o un Marco Furfaro, o una Marta Bonafoni gli tirerebbero volentieri il martello come fece Pinocchio. Ma il problema, appunto, sono gli elettori cui il grillo dà voce. Sentendosi traditi, alcuni si turerebbero il naso; altri sceglierebbero l’astensione; altri ancora si butterebbero dall’altra parte dove, spiace ammetterlo, pur tra mille sofferenze la Ducetta ha scelto l’Europa, né avrebbe potuto fare diversamente; gli stessi Fratelli d’Italia hanno votato la proposta di riarmo insieme con i Popolari e coi Socialisti da cui invece si è distanziata Schlein, come se mettersi di traverso su una scelta esistenziale per l’Unione – quale la difesa dalle aggressioni russe e l’indipendenza militare da Washington – fosse cosa da poco e non equivalesse a scendere sul terreno dei sovranisti: diverse le motivazioni ma analogo il metodo.
Un vecchio conoscitore di umori moderati, Osvaldo Napoli, esclude che la comparsata di Schlein alla bella manifestazione romana pro-Europa possa chiudere il caso: “L’europeismo di piazza non funziona, lascia tutti i nodi in sospeso”, sentenzia. Quanto all’antifascismo, possibile collante contro le destre come è accaduto l’anno scorso in Francia, chissà se nel 2027 sarà ancora in grado di mobilitare le coscienze, comprese le più dubbiose. E chissà quale, tra i molti mali, sembrerà il minore.
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