Anno: XXVI - Numero 14    
Martedì 21 Gennaio 2025 ore 13:50
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GLI ERMELLINI CANCELLANO I CINQUE REFERENDUM.

Bocciato il quesito sull’Autonomia. Passano i quesiti su cittadinanza e Jobs Act che però, da soli, difficilmente arriveranno al quorum.

GLI ERMELLINI CANCELLANO I CINQUE REFERENDUM.

Perfino sotto le volte di Capitol Hill, dove era corsa a celebrare l’insediamento dell’amico Donald Trump, Giorgia Meloni ha tirato un sospiro di sollievo quando ieri le è stato comunicato il “no” della Corte costituzionale al referendum contro l’Autonomia. Non perché la premier abbia a cuore il destino di una riforma varata solo per amor di coalizione, ma perché il via libera della Corte avrebbe innescato una guerra tra alleati. Una grossa grana in più, da aggiungere a cosa fare di Daniela Santanchè, allo scontro aspro con la Lega sul Veneto di Luca Zaia e alla salute fragile (politicamente) di Matteo Salvini.

A dire chiaro e tondo che il sì al referendum sarebbe stato “un colpo durissimo per il governo” era stato a metà dicembre, in un sussulto di sincerità, il guardasigilli Carlo Nordio. E non tanto per l’epilogo: superare il quorum del 50% più 1, in una stagione politica dove va a votare meno della metà degli elettori, sarebbe stato per il fronte referendario un’impresa decisamente complessa. Quanto perché la campagna che avrebbe preceduto il voto, in programma tra metà aprile e metà giugno, sarebbe stata lacerante per il centrodestra. Un vero e proprio Vietnam. Invece grazie alla sentenza della Consulta, il pericolo è scampato: Meloni & C. possono festeggiare e archiviare la pratica. Lo fanno con una soddisfazione in più: Elly Schlein, Giuseppe Conte e il segretario della Cgil, Maurizio Landini, non potranno cavalcare lo “Spacca Italia”. Le opposizioni e la Cgil hanno perso l’unica arma che avevano per mettere in difficoltà il governo e il centrodestra e Meloni potrà continuare la navigazione fino alle elezioni regionali d’autunno o della primavera 2026. Ciò dovrebbe insegnare alla Destra che i giudici non sono tutti brutti e cattivi, come invece prevede la sua narrazione.

A subire il colpo più duro è Landini. Dal 1997 a oggi solo un referendum abrogativo (quello sull’acqua pubblica nel 2011) ha raggiunto la quota di 50% più uno di votanti. “E senza il traino della consultazione sull’Autonomia”, sostiene il costituzionalista di area dem Stefano Ceccanti all’HuffPost, “non c’è alcuna possibilità che il quorum venga raggiunto”.

Ciò significa che, dopo la decisione della Corte costituzionale, sono destinate a naufragare per mancanza di elettori le altre cinque consultazioni che invece ieri hanno superato l’esame dei giudici. Quelle, appunto, promosse da Landini e da +Europa: le quattro sul tema del lavoro, inclusi l’abolizione del Jobs Act di Matteo Renzi, la sicurezza nei cantieri, i contratti a termine e quella per ridurre da 10 a 5 anni i tempi per concedere la cittadinanza italiana agli extracomunitari residenti nel nostro Paese.

Non sta messa molto meglio Elly Schlein. La leader del Pd – che nel maggio scorso firmò i referendum della Cgil “perché sono sempre stata contraria al Jobs Act: era uno dei punti qualificanti della mozione con cui sono stata eletta segretaria” – ora dovrà fare una campagna referendaria sapendo di perderla. Salvo improbabili sorprese. E dovrà farla sotto il cannoneggiamento dei riformisti dem, da Stefano Bonaccini a Lorenzo Guerini, passando per i cattolici in fermento come Graziano Delrio. Tutta gente che nel 2016 sostenne il Jobs Act targato Renzi senza se e senza ma. E che ora avrà buon gioco a ripetere: “Elly sposta troppo a sinistra il Pd”.

Il centrodestra però se l’è vista davvero brutta. Salvini, per una volta in sintonia con Zaia, si era già armato per la guerra. L’Autonomia, soprattutto adesso che i governatori del Nord lo stringono d’assedio invitandolo a riporre nel cassetto il progetto di partito nazionale, è diventata la ragione sociale della ditta anche se la riforma è stata in gran parte demolita dalla stessa Consulta con la sentenza del 14 novembre. Così, per ridurre il rischio di vederla bocciata dagli elettori, il vicepremier e i suoi avevano deciso di boicottare il quorum rispolverando “l’andate al mare” di craxiana memoria. “Chi crede nell’Autonomia non dovrà andare a votare. La partita si gioca sull’astensione”, avevano messo in chiaro Salvini e il governatore Zaia”.

Qui, però, erano cominciati guai e dolori. Fratelli d’Italia e Forza Italia, che pescano molti consensi al Centro e al Sud del Belpaese, hanno mostrato da subito non poche difficoltà ad aderire al passaparola leghista. In quelle Regioni, infatti, l’Autonomia è letta per quella che è: un favore al Nord ricco e un danno al resto dell’Italia. Dunque, non sarebbe stato facile per Meloni e Tajani chiedere ai propri sostenitori al di sotto della Val Padana di restarsene a casa e di non difendere i propri interessi, vergando sulla scheda il “sì” all’abrogazione dello “Spacca Italia”. Tant’è, che il presidente del Senato, Ignazio La Russa, era corso a dichiarare: “Io andrò a votare”. Ed era diventato evidente l’imbarazzo di FdI e FI, che si erano limitati a individuare una strategia “riparativa”: “Terremo i toni bassi per evitare di invogliare la gente ad andare alle urne. E comunque, se il referendum dovesse passare il vaglio della Consulta”, avevano spiegato alla vigilia della sentenza ad HuffPost i capogruppo in Senato di FdI e FI, Lucio Malan e Maurizio Gasparri, “interverremo in Parlamento per modificare il testo della riforma così come indicato dalla Corte costituzionale a novembre. A quel punto il referendum sarà inutile”.

Adesso, in Parlamento, comincia la complessa opera di rammendo della riforma come indicato dai giudici costituzionali. E si apre un altro delicato capitolo della sofferta, litigiosa, convivenza nel centrodestra: la rissa tra leghisti e alleati è dietro l’angolo. Tajani già annuncia che sarà “garante” degli interessi delle Regioni del Sud e del Centro, Meloni vuole far approvare prima i Lep (i livelli essenziali di prestazioni), Salvini invece chiede di far ripartire subito gli accordi di devoluzione con i governatori nordisti.

REFERENDUM 2025

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