Anno: XXV - Numero 214    
Giovedì 21 Novembre 2024 ore 13:20
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NESSUNO VUOLE IL CARCERE PER I GIORNALISTI

Il deputato di Forza Italia Tommaso Calderone respinge l’idea di aver voluto colpire la stampa proponendo con un emendamento di punire i cronisti con pene fino a 8 anni: l’obiettivo, dice, sono i lobbisti.

NESSUNO VUOLE IL CARCERE PER I GIORNALISTI

«È una tempesta in un bicchiere d’acqua, perché a tutto ho pensato, tranne che ai giornalisti». Tommaso Calderone, deputato di Forza Italia, non vuole farsi trascinare in una polemica che, dice, non lo riguarda. Perché il suo emendamento al ddl Cybersicurezza – che punisce con pene fino a 8 anni chiunque utilizzi, riproduca, diffonda o divulghi, con qualsiasi mezzo, dati o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico sottratti illecitamente – mira a colpire, spiega al Dubbio, un’altra categoria: i lobbisti.

La diffusione a mezzo stampa, dunque, non rientra nel concetto «qualsiasi mezzo»? No, assicura il deputato forzista, che rivendica con fierezza il suo garantismo e, dunque, respinge con forza l’idea di aver pensato, anche solo per un minuto, di punire con il carcere i giornalisti. «La polemica è stata creata ad arte da alcuni giornali, ma la ratio gliela spiego subito: immagini un funzionario dell’Agenzia delle Entrate che fa un accesso abusivo al credito e gira questa notizia a un consorzio di imprese che può danneggiare il concorrente per la white list. Non va punito? Questo è il senso del mio emendamento e con i giornalisti non c’entra nulla. L’intenzione è quella di evitare che restino impuniti lobbisti, imprenditori deviati e malfattori. Per voi giornalisti rimane l’esimente del diritto di cronaca: come ce l’avevate prima l’avrete in futuro. Non cambia nulla».

L’idea che Calderone vuole respingere è, soprattutto, quella del doppiopesismo: non si critica chi vuole più carcere per poi introdurre nuove pene, facendo di fatto lo stesso gioco. Un marchio di infamia che Forza Italia non può e non vuole portarsi addosso. L’idea, invece, è quella di allargare l’alveo di un reato già esistente a comportamenti finora rimasti nell’ombra e potenzialmente deleteri. Reato che esiste già, dunque applicabile a prescindere dalla categoria (foss’anche quella dei giornalisti), ma che – stando al ragionamento di Calderone – andava meglio specificato in termini di condotte, alcune delle quali sono rimaste, finora, impunite.

«Quella che ho letto oggi su alcuni giornali è una speculazione ridicola. Ma non sono arrabbiato, sono solo veramente sconcertato. La verità è che ci voleva un applauso per questa norma», ha sottolineato. Lo spazio per considerarla indirizzata ai giornalisti, almeno in linea di principio, c’era tutto. E anche il contesto era quello ideale, dal momento che il ddl Cybersicurezza è diventato un fascicolo urgente sull’onda dei presunti dossieraggi della guerra personale tra il ministro Guido Crosetto e i giornalisti di Domani. «Non è quello il problema a cui stavo pensando», precisa il forzista.

Il suo emendamento, letto in combinato disposto con quello a firma Enrico Costa, che mira a punire con pene fino a tre anni proprio i giornalisti che diffondono – con consapevolezza – informazioni frutto di reato, dava però proprio quell’impressione. Ed è per questo, spiega Calderone, che non è escluso un intervento per chiarire ulteriormente lo scopo dell’intervento e sgomberare il campo da dubbi. «Le norme sono perfettibili – sottolinea – e se necessario possiamo eliminare quella parte che potrebbe indurre a pensare che l’intento è colpire il giornalista. Ma lo ribadisco, e voglio che venga precisato con forza: questa norma è fatta contro i lobbisti e contro gli imprenditori deviati, non contro i giornalisti. Io ho fatto del garantismo la bandiera della mia vita, si figuri se voglio perseguire i giornalisti con il carcere».

Anche perché se il giornalista si macchia di un reato la legge può già punirlo. E sono capitati anche casi di indagine per ricettazione, proprio a carico di giornalisti che avevano pubblicato delle notizie. Casi anche curiosi, dal momento che colui che aveva fornito la notizia non poteva che essere un uomo dello Stato, mai individuato o perseguito. Un esempio su tutti è quello di Agostino Pantano, giornalista calabrese che, qualche anno fa, fu iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di ricettazione. La sua colpa? Aver pubblicato la relazione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose dell’amministrazione comunale di Taurianova prima che la stessa venisse resa pubblica. Non essendo mai stata individuata la sua fonte, Pantano si è dovuto difendere di essersi appropriato in modo illecito della relazione della Commissione d’accesso. Il giornalista, alla fine, venne assolto «perché il fatto non sussiste».

Ma chi avrebbe potuto dargli quell’informazione? È proprio questa la parte complicata, nei casi in cui un giornalista pubblica notizie tecnicamente segrete. Le norme, pensate a tutela delle sorti dell’inchiesta, non solo della reputazione, ci sono già. Ma nessuno, a memoria, le ha mai applicate. Basterebbe pretendere questo, ricordando che su questa applicazione dovrebbe vigilare la magistratura, che, in teoria, dovrebbe sentirsi danneggiata dalle fughe in avanti spesso provocate dalla stampa. Ma è un falso problema, date le uniche risposte possibili alle seguenti domande: chi consegna ai giornalisti atti segreti? E a chi conviene lasciare impunito quel reato?

Il Dubbio

 

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