PROCESSO ALLA GOGNA
Il processo mediatico al centro della prima giornata di eventi del Dubbio al Salone del Libro di Torino, con Marco Sorbara che ha raccontato i suoi 900 giorni in carcere.
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La gogna che soffoca, strozza, uccide. Il carcere che umilia, debilita, massacra. E la riabilitazione che arriva a fatica, e a volte non arriva mai. Si è parlato di tutto questo nel panel di presentazione di quello che è leit motiv della presenza di quest’anno del Dubbio al Salone del libro di Torino, cioè il “Processo mediatico: il colpevole sei tu”.
All’incontro, moderato da Valentina Stella, hanno partecipato la compagna di Enzo Tortora, Francesca Scopelliti, e Marco Sorbara, già consigliere comunale di Aosta e assessore regionale in Valle d’Aosta. Un incontro emotivamente forte, a tratti commovente, che ha dimostrato al numeroso pubblico presente gli effetti che la gogna mediatica può provocare sul corpo e sull’anima delle persone.
Si è partiti ricordando quel 17 giugno 1983, giorno in cui Enzo Tortora viene arrestato per associazione camorristica e traffico di droga. «Tortora fu chiamato la sera prima da un giornalista che gli disse che era stato arrestato, ma lui si mise a ridere – ha raccontato Scopelliti – Era una fuga di notizie, d’altronde i procuratori napoletani non vedevano l’ora di aprire le danze della pubblica gogna». Poi, la mattina dopo, l’arresto, con tanto di attesa nella camionetta per aspettare l’arrivo delle troupe televisive proprio di fronte alla caserma, prima del trasferimento a Regina Coeli. «Seguitelo, seguitelo bene questo mostruoso caso giudiziario», disse Tortora, come racconta la compagna leggendo dei brani di Cara Italia ti scrivo, uno dei libri scritti dal conduttore per spiegare il suo caso.
«Enzo era stato arrestato in mancanza di prove e quindi serviva una scenografia che rendesse sin da subito evidente la colpevolezza, che mai fu data per presunta ma sempre per certa», continua Scopelliti. Che poi legge alcune delle Lettere a Francesca, contenute nell’omonimo libro che raccoglie tutte le lettere inviate da Tortora alla compagna durante la detenzione. Ed è a questo punto che Scopelliti usa l’espressione “giornalismo antropofago”, per descrivere «il massacro che fu fatto di Enzo, una sorta di cannibalismo». Con un esempio su tutti: quello di Camilla Cederna, che sulla Domenica del Corriere diede sostanzialmente al conduttore del colpevole perché antipatico.
Ma ci fu anche chi lo difese, tra tutti Enzo Biagi. Che scrisse una lettera intitolata E se fosse innocente?, sottoscritta anche da altri come Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Piero Angela.«C’erano autorevolissime voci di pensiero libero che si scagliarono contro l’inchiesta napoletana, ma oggi non sarebbe possibile perché il clima che si è instaurato è quello della gogna a tutti i costi e del fango», ragiona amaramente Scopelliti.
Che poi parla dell’esperienza del compagno in carcere anche in “positivo”, spiegando che condivideva la cella con altri sei detenuti, di cui uno sofferente di enfisema polmonare e verso il quale il conduttore si prodigò per fargli avere un ventilatore. «Da un lato ha vissuto il carcere con il carattere che ha sempre avuto, generoso e attento agli altri – continua Scopelliti – dall’altra visse la galera per quel che è, cioè un luogo di privazione della libertà con tutto ciò che ne consegue». Tra cui il tumore che colpì Tortora, il quale al momento dell’arresto disse di aver sentito «una bomba al cobalto scoppiarmi nel cuore», e che lo portò alla morte nel 1988. E non è mancata la parte più intima del racconto, quella in cui Scopelliti ha spiegato che «nonostante fossimo fidanzati ma non c’era la possibilità di andarlo a trovare in carcere» ma ammettendo anche che «forse lui stesso non voleva che lo andassi a trovare per non farsi vedere da me in quella condizione».
E l’emozione non è mancata nemmeno nel racconto di Sorbara, nominato pochi giorni fa “ambasciatore del perdono” dall’organizzazione di volontariato My Life Design. «È terribile: sono arrivati alle tre e un quarto del mattino e hanno messo la casa a soqquadro». L’ex assessore racconta la sua vicenda: la corsa in caserma, la foto segnaletica, le impronte digitali. Momenti rivissuti nell’installazione del Dubbio che quest’anno al Salone simula un caso di gogna mediatica, dopo la cella simulata lo scorso anno. «All’arrivo in carcere vieni spogliato di tutto, l’unico tuo compagno di viaggio è la paura», ha raccontato Sorbara. Una cella di quattro passi per due, la sua, 45 giorni di isolamento, una condanna in primo grado a dieci anni, poi 945 giorni di carcere e 24 chili persi in poco meno di tre anni. E poi il mutuo revocato, i crediti dell’ordine dei commercialisti non completati, l’infamia di essere giudicato “figlio di un calabrese”, e quindi, per i giustizialisti, per forza ‘ndranghetista. Dopo la prima condanna e 72mila pagine di inchiesta, il pensiero di farla finita. E quella frase di sua madre: «Marco, non si molla», che lo fa desistere. «Non cambierei una virgola di quel che mi è successo – dice oggi Sorbara – assaporo i momenti e mi godo la vita perché a tutti può succedere quel che è successo a me».
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