L'equo compenso va applicato anche alle convenzioni esistenti
L'Unione nazionale camere civili torna sul tema sollevato dal Consiglio nazionale forense paventando il rischio che la riforma finisca nel nulla
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Dopo la soddisfazione per l’approvazione della legge sull’equo compenso dei professionisti, parte il pressing degli avvocati per correggere le “criticità”. Per il Presidente del Cnf Francesco Greco la nota dolente che rischia di vanificare, almeno in prima battuta, gli effetti della norma è l’articolo 11 della legge che prevede l’applicazione della corretta remunerazione solo alle nuove convenzioni da stipulare e non anche a quelle già in essere.
“Ciò significa – afferma Greco – che i clienti forti non registreranno nuove convenzioni con i professionisti, e di fatto la legge sull’equo compenso potrebbe restare una norma vuota priva di applicazione”. Un tema su cui torna oggi anche l’Unione delle Camere civili auspicando “una equa interpretazione” delle norme sulla retroattività, ma anche di quelle relative alle “sanzioni dei professionisti” e sul “potere negoziale di banche e assicurazioni a sfavore dei giovani avvocati”.
Per Greco “la soluzione sta nel prevedere che la legge appena approvata dal Parlamento si applichi ai nuovi incarichi anche se all’interno delle vecchie convenzioni. Solo così sì ci sarà una vera svolta: si salverebbero i bilanci degli enti pubblici e, regolando con la nuova disciplina tutti i nuovi incarichi, si tutelerebbe la professionalità e le competenze degli avvocati”.
Per le Camere civili, guidate da Antonio de Notaristefani, “nonostante esista a monte una convenzione quadro, ogni singolo incarico conferito e accettato costituisce un nuovo rapporto a cui la nuova legge può essere applicata”. In tale scenario, dunque, solo i rapporti in corso di svolgimento dovrebbero essere esclusi, “il che resterebbe ingiusto ma sicuramente ridurrebbe di molto i margini di ingiustizia”.
I civilisti premono dunque per l’applicazione immediata dell’equo compenso perché viceversa sarà “l’intervento del giudice a stabilire cosa sia equo e cosa non lo sia, e a decidere sulla nullità dei contratti che prevedono condizione non eque”. Nel nostro ordinamento, spiegano, “correttezza e buona fede sono strumenti che permettono al giudice anche di modificare il contenuto del contratto che le parti hanno firmato, pertanto, in mancanza di nullità automatica o nel caso in cui non sia possibile riconoscere al professionista l’indennizzo previsto dalle nuove norme, sarà il giudice, se richiesto, a poter stabilire che i vecchi rapporti non soggiacciono alla nuova legge, e che non è giusto che prestazioni identiche vengano pagate diversamente a seconda della data in cui è stato sottoscritto il contratto. Invocando la correttezza e la buona fede, sarà egli stesso a concedere, quella integrazione del compenso che il Legislatore ha incomprensibilmente escluso”.
Riguardo poi la questione degli indennizzi che il giudice può liquidare al professionista che ha dovuto subire un trattamento non equo, diventa “controintuitivo prevedere che una vittima debba subire una sanzione disciplinare, come prevede il nuovo articolo 5 comma 5”. Unica eccezione sarebbe il tentativo di accaparramento di clientela, “che però è cosa diversa”.
Infine, la terza e ultima considerazione va al futuro della professione: se davvero le vecchie convenzioni restassero invariate in eterno, afferma l’Uncc “pure per gli incarichi futuri, si bloccherebbe il ricambio generazionale: banche e assicurazioni cercherebbero di mantenere in vita il rapporto con i vecchi avvocati, pur di conservare il loro potere negoziale”.
Da Il Sole 24 Ore
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