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Medici dipendenti, il burn-out è diffuso anche in Europa.

Ecco i paesi dove la situazione è migliore Stress, burnout e burocrazia spingono un quarto dei medici a lasciare il lavoro. Ecco il quadro dipinto da Jama

Medici dipendenti, il burn-out è diffuso anche in Europa.

Anche all’estero il medico è stanco per un carico di lavoro eccessivo, vede la professione svilita nel suo ruolo sociale, cresce poco e non trova soddisfazione economica; i nostri camici che emigrano in cerca di una retribuzione soddisfacente bene fanno a guardare verso Nord. Lo dice un’indagine Anaao-Fems (Federazione Europea Medici Salariati) su 13.461 medici – 7447 donne e 6014 uomini – condotta da Alessandra Spedicato, Capo delegazione Anaao Assomed nella Federazione su 12 paesi: Italia, Francia, Spagna, Germania, Romania, Portogallo, Austria, Svezia, Croazia, Slovenia, Slovacchia e Cipro, prima nel suo genere a livello europeo. Quasi ovunque il servizio è visto come peggiorato negli ultimi 10 anni, specie per eccessivi carichi di lavoro mancanza di personale. In Germania, Svezia e Austria però restano buone chance di crescita, retribuzione e formazione soddisfacenti, transito facile da una struttura ad un’altra. Nelle nazioni più popolose- Austria, Germania, Portogallo, Italia, Francia, Svezia, Spagna, che paradossalmente investono molto in sanità – negli ultimi 10 anni, la qualità dei servizi di casa propria è percepita come peggiorata nel 59% dei casi. Solo a Cipro e in Romania i servizi sono migliorati. Per il 58% dei medici in Italia, Germania, Francia, Spagna, Portogallo è peggiorata la qualità dei servizi del proprio ospedale, in genere (83% del campione) per via dei carichi eccessivi di lavoro dovuti a carenza di personale, degli scarsi investimenti nelle strutture, delle influenze dalla politica sulla dirigenza e di retribuzioni giudicate inadeguate in un caso su tre.

Uomini e donne – A denunciare carichi di lavoro gravosi e basse chance di crescita personale sono di più le donne, che hanno risposto in maggioranza in tutti i paesi tranne la Germania (dove l’86% sono uomini), l’Italia (leggerissima maggioranza: 1642 uomini – 1640 donne) e la Romania. Un 25% di medici, in Austria, Svezia, Germania, vede invece possibilità di crescita professionale, soprattutto è più facile cambiare struttura; altrove, le chance di veder riconosciuta la propria professionalità là dove si lavora sono ritenute poche da due terzi del campione. Il 92% maggioranza dei partecipanti non ritiene il compenso economico adeguato all’impegno profuso (unica eccezione, la Germania) e lo vedono in assoluto inadeguato due medici su tre, ma tra le donne si arriva al 90%. Per un medico su due lavorare in una struttura sanitaria significa rinunciare alla vita privata e comunque (41%) se dipendenti si percepisce uno scarso riconoscimento sociale e poco coinvolgimento nelle politiche di gestione (50%); per il 66% del campione molte norme volte a migliorare la sicurezza e la qualità delle cure sono in realtà strumenti volti a ridurre i costi. Stride il contrasto tra la fiducia nelle prospettive del lavoro svolto (59%) e quelle di carriera per le quali il 58% si ritiene insoddisfatto; l’organizzazione del lavoro scontenta 3 su 4, e l’aggiornamento lascia insoddisfatto il 58% mentre soddisfa 83 su 100 il rapporto con i pazienti e 58 su 100 il livello di dotazioni tecnologiche. Male per due su tre le possibilità di conciliare vita e lavoro.

La lezione del Covid – La risposta al Covid-19 per il 50% del campione è stata abbastanza adeguata e tra questi ci sono i medici italiani, mentre il 42 -molti gli spagnoli – la ricorda inadeguata. L’83% ritiene che la struttura dove lavora abbia risposto all’emergenza in maniera abbastanza idonea, il 75% ritiene di aver svolto un ruolo importante ma metà di questi rispondenti sentono di esser stati poco valorizzati. A sorpresa, il 75% riferisce che il personale è stato dotato di DPI adeguati. Ma cos’ha insegnato la pandemia? Per 3 su 4 ad investire in prevenzione, per un 41% a scommettere su più letti di terapia intensiva, per 1 su 4 a potenziare la medicina territoriale.

Il commento – «In un momento socio economico di difficoltà e pensando in termini di iso-risorse – riassume Spedicato – è necessario immaginare una RI-definizione dei carichi di lavoro riconsiderando i nuovi bisogni di salute della popolazione, le patologie emergenti, la burocratizzazione delle procedure di assistenza, l’ergonomia degli spazi di lavoro e del processo lavorativo». Ma serve anche «favorire la mobilità sanitaria e incentivare gli ospedali e i territori a rischio fuga dei professionisti ad attivare politiche di incentivazione, oltre che coinvolgere la politica e gli ordini dei medici a una valorizzazione del ruolo sociale e professionale del medico. La depenalizzazione dell’atto medico sarebbe un importante segnale di cambiamento; altro segnale sarebbe defiscalizzare la retribuzione accessoria così da incrementare il salario netto».

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